Un album venduto ogni otto scaricati illegalmente

Dopo la notizia del lancio di Meta, è arrivata rapidamente quella del motore di ricerca dei contenuti illegali pubblicati sul nuovo servizio di Kim Dotcom. La stessa cosa era successa con qualsiasi servizio nato in buona fede o meno per ospitare contenuti multimediali; d’altra parte senza motori di ricerca non esisterebbero download fuori legge.

Il punto è che ormai per intere generazioni, in particolare quelle più giovani, “recuperare” in Rete brani musicali, libri, film e qualsivoglia altro contenuto digitale è la normalità. Certo, ci sono iTunes, Amazon o Google Play che propongono download legittimi; ma esistono davvero persone under-35 che comprano i file, magari protetti da DRM?

L'articolo 'Illegal music filesharing is now mainstream' del 18 settembre 2012

Il mercato digitale musicale ufficiale in Italia è tuttora appena del 33% del mercato discografico, pur con crescite annuali a due cifre. Ma si tratta sempre di numeri marginali: un’indagine svolta in Gran Bretagna ad esempio ha stimato che per 1,2 milioni di copie vendute dell’album di Ed Sheeran, 8 milioni sono state “acquisite” illegalmente.

È evidente che ormai si tratta di una partita persa per l’industria discografica; quella cinematografica resiste, anche se l’home video è andato a farsi benedire. Ora è il turno dei libri: senza difficoltà è possibile trovare Pdf dei libri più noti semplicemente cercandoli su Google. Di cosa vivranno nei prossimi anni coloro che campavano di diritti d’autore?

Diritto d’autore e vita da consulente

La posizione “ufficiale” della consulenza rispetto alla vicenda “Matteo Flora vs. Mondo” (per gli altri: Mediaset vs. YouTube) potrebbe essere quella di Annarellix: un articolo meditato, che esprime amarezza per una certa percezione collettiva che il mondo ha del nostro (sporco) lavoro. La difesa ufficiale del consulente di Mediaset è invece quella di Daniele Minotti, noto giurista e a sua volta consulente legale: anch’egli difende la vastissima categoria dei “consulenti”, leggendo ovviamente la vicenda da un punto di vista più approfondito e non fermandosi alle varie critiche del tipo “Venduti!”.

La difficoltà collettiva intrinseca nell’affrontare la vicenda deriva dal manto di mistero che ricopre la professionalità dei consulenti di alta direzione. Di coloro che, in ambito legale come HRM, con interessi in Area Commerciale o nei BPR, supportano le grandi aziende in operazioni delicate, propedeutiche a sviluppi importanti come quello di Mediaset (che potrebbe “guadagnare” 500 milioni di Euro dalla vicenda, cioè una cifra pari all’utile netto 2007). Di quei personaggi che rimangono nell’ombra, portando nella tomba segreti industriali, organizzativi e relativi alle Risorse coinvolte negli affari.

Vista la faccenda con l’occhio del consulente, se c’è una critica che si può fare a Lastknight, è proprio l’aver voluto raccontare troppo del proprio lavoro in pubblico. Non è un caso che il primo articolo sulla sua consulenza allo studio legale nominato da Mediaset, a metà luglio, sia stato salutato col sorriso dei suoi lettori abituali, mentre quelli successivi, in particolare quello di fine luglio, abbiano ricevuto centinaia di commenti furiosi. Matteo, che è un freelance, si è voluto esporre per mettere in risalto la quantità di lavoro richiestagli dalla faccenda, ma è rimasto scottato dal contatto col pubblico.

Il diritto d’autore, d’altronde, è il tipico campo in cui aziende, istituzioni e utenti finali hanno vision completamente diverse e difficilmente coniugabili. Le aziende hanno costruito un secolo di business su quello che, fino all’inizio del Novecento, era un settore industriale marginale. Oggi media ed editoria sono mercati che valgono tanto, che su quei diritti si confrontano quotidianamente con le istituzioni, che hanno serie difficoltà a regolamentare in maniera adeguata l’effervescente mercato in cui, come se non bastasse, i cittadini vogliono iniziare ad avere una voce, come utenti e come produttori di contents.

Alla fine proprio loro diventano il fulcro del problema: come nota Sp0nge, sono gli utenti finali che, invece di pubblicare i filmatini delle vacanze, si dilettano a uploadare i filmati di Mediaset, trascurando del tutto il tema del diritto d’autore. Non c’è consulente che tenga: Flora ha potuto solo censire cosa “la folla” ha fatto degli spezzoni Mediaset. Non è un caso che, nella querelle Viacom vs. YouTube, sia emersa la vera intenzione del gigante statunitense: verificare se alcuni video siano stati caricati anche da staff Google o da privati. Nel primo caso (e ciò potrebbe valere anche per Mediaset), ci sarebbe dolo.

Il mondo dei media evolve rapidamente e non si può non condividere l’analisi di Massimo Gramellini sulla trasformazione del gruppo editoriale della famiglia Berlusconi da pirata dell’etere a organizzazione che lotta contro i concorrenti più subdoli del momento, quelle Internet company che hanno capito la rilevanza del mercato ed operano borderline con le regole del diritto d’autore per rubare loro la linfa vitale, quella del mercato pubblicitario. L’attenzione degli utenti è poca e preziosa: è ormai evidente che broadcaster tradizionali e piattaforme di videosharing siano più concorrenti di quanto possa sembrare.

Una delle maggiori critiche fatte a Mediaset, d’altronde, è il frequente ricorso, durante le proprie trasmissioni, a spezzoni presi da YouTube. Un meccanismo che a molti sembra speculare alla presenza di contenuti Mediaset su YouTube e similari, ma che in realtà presenta un problema di fondo: Mediaset di solito trasmette video semi-privati pubblicati tramite YouTube, mentre YouTube ospita filmati di proprietà di Mediaset. Fin quando si continuerà a confondere i due piani, ci si fermerà a discutere di diritto d’autore come se si parlasse del capocannoniere del campionato di calcio al bar sotto casa.

Il diritto d’autore, invece, è cosa seria e (perché no) giusta. Produrre un articolo, un video, una canzone, una foto, può essere un’attività professionale e come tale merita di essere preservata. Sono anni che ci si lamenta della SIAE, ma non se ne viene a capo: il mercato dei diritti d’autore deve essere seriamente rivisto e ciò deve essere fatto a livello europeo. L’Italia seguirà a ruota, ma si spera in maniera coscienziosa: troppe persone ormai vivono di diritti d’autore, in maniera più o meno indiretta. Se YouTube non ha bisogno di molte Risorse umane, Mediaset e Viacom sì… E di molti consulenti, oh.

Televisione digitale terrestre e IPTV: la sfida continua

Dove saranno finiti i profeti dell’IPTV che nel 2005 prevedevano un’esplosione, proprio nei mesi che stiamo vivendo oggi, degli abbonati alla TV via cavo? Facile: sono passati a prevedere boom ancora maggiori da qui ai prossimi anni. Previsioni, bisogna dire, abbastanza fantasiose: fino ad ora la mini-impennata delle sottoscrizioni (ma si parla sempre di centinaia di migliaia di utenti, non certo di decine di milioni), è dovuta esclusivamente alle offerte semi-gratuite dei 4 principali operatori (Telecom Italia, Fastweb, Wind, Tiscali), che stanno provando a penetrare il mercato continuando a inseguire il mito del triple play.

Piacciono a molti la pubblicità di Diego Abatantuono per la TV di Alice o di Valentino Rossi per quella di Fastweb: nel concreto, però, le attivazioni stanno avvenendo più per il pressante pressing dei call center outbound nel proporre offerte “a tutto tondo” che per un effettivo interesse delle famiglie. I vantaggi del mezzo, infatti, sono tutti da dimostrare: Fastweb punta tutto sulla presenza di Sky (sigh) nel proprio bouquet e Alice sulla monumentale (?) offerta on demand, mentre Infostrada e Tiscali si stanno ancora chiarendo le idee. Inutile anche aggiungere che il continuare a definire “banda larga” l’ADSL non aiuta nella qualità del servizio.

Gli esperti del mercato sottolineano che l’unico servizio che abbia un certo seguito sia il servizio di digital recording delle trasmissioni analogiche offerto da Fastweb con sommo sprezzo dei diritti d’autore delle reti originali. Qualcosa di non troppo dissimile da Ricky Records, che tuttavia consente il consistente vantaggio di poter acquistare trasmissioni spot e senza un contratto così forte come quello che gli utenti delle varie IPTV italiane devono sottoscrivere anche solo per godere dei periodi di gratuità dell’offerta. Gli investimenti per l’IPTV, d’altronde, sono corposi ed è bene garantirsi la fedeltà dei propri sottoscrittori, anche di quelli “per caso”.

In uno scenario simile, i detentori dei diritti televisivi si leccano i baffi. C’è sete di contenuti ed è difficile che, oltre alle infrastrutture, le TelCo inizino ad investire pesantemente nella produzione di contenuti. Più facile, appunto, “rubarli” o semplicemente stringere accordi per includere nelle offerte IPTV canali già presenti su altre piattaforme. Ed è qui che il digitale terrestre fa il suo ingresso trionfale: il suo destino di piattaforma ufficiale per televisioni e televisori europei fa sì che attori che stanno interpretando correttamente le tendenze del mercato come Mediaset si troveranno a divenirne leader non solo nella propria piattaforme nativa, ma anche in quelle alternative.

Sarebbe ora che anche la Rai si desse una svegliata, invece di continuare ad infilarsi in vicoli ciechi come quello della brutta storia della “sperimentazione” dell’alta definizione in vista degli imminenti Europei di calcio. Fino ad ora solo Telecom Italia Media, con iniziative tipo Qoob e La7 CartaPiù, è sembrata cavalcare l’onda del digitale terrestre in maniera almeno paragonabile (con le necessarie proporzioni) a quella di Mediaset. Il digitale terrestre, nella sua bruttezza tecnologica, è il nuovo eldorado televisivo italiano ed è bene adeguarsi: poi è bene che esistano offerte alternative come quelle via IPTV, sperando che siano alternativi anche i contenuti.

La blogizzazione dei giornali miete vittime

Questa è una storiella dedicata ai lettori di .commEurope abitanti nel mondo reale e non nella blogosfera (alias la maggior parte): è quella del blogger italiano Paul The Wine Guy che, pur avendo iniziato a curare il suo blog da pochi mesi, è riuscito a ottenere una grande notorietà tramite iniziative originali e innovative. Qualche esempio? Il Blogstar Deathmatch, perfetto per attirare l’attenzione delle vedette nostrane, oppure 7 giorni senza Google, utile per guadagnarsi la simpatia di tuti gli altri blogger Google-dipendenti (alias la maggior parte). Ultima idea originale: la serie Understanding Art for Geeks, pubblicata periodicamente sul suo blog e poi sistematizzata su Flickr.

'The Thinker' di Auguste Rodin nella versione di Paul The Wine GuyUn’ulteriore occasione per ricevere grande attenzione, soprattutto nel mondo dei tumblelog nostrani, ansiosi ogni volta di pubblicare le nuove puntate della serie. Arriviamo infatti ai giorni nostri: l’idea di utilizzare le opere più celebri della storia dell’arte e “personalizzarle” ad uso e consumo dei geek di tutto il mondo è sublime, ma soprattutto virale. La pubblicazione su Flickr è il grilletto: ogni opera accumula decine di migliaia di visite e rapidamente permette a Paul The Wine Guy di ottenere l’attenzione dei grandi siti internazionali. Inizia Slashdot, con il classico dibattito sui massimi sistemi tipico di questa piattaforma, poi arriva l’intervista con underwire, blog di Wired:

«Paul, who requested his last name not be used so his boss doesn’t know he’s occasionally slacking off, works as a web developer in Northern Italy. He tells the Underwire that the project was inspired by his two passions: art and computers. When he was younger, he attended the Academy of Fine Arts of Brera in Milan, and found it easy to “see the hilarious side of a painting.”»

In questa glorificazione internazionale si inserisce anche l’italianissimo Corriere.it: mette in home page il set completo di Understanding Art for Geeks pubblicato sino ad ora. Peccato che “dimentica” qualsiasi attribuzione a Paul The Wine Guy: unica concessione, dopo tutte le polemiche viste negli scorsi mesi, una laconica scritta “Da Flickr.com”, senza link. Scoppia una mobilitazione generale tra i titolari di tumblelog, che esprimono la solidarietà a Paul The Wine Guy: questi, intelligentemente, nota di non essere un angioletto in termini di rispetto del diritto d’autore, concludendo, a proposito dei suoi carnefici,

«devo disimparare nel chiamarli giornalisti. Perché se scrivono mediocremente, fanno errori, sono servili, cascano nelle bufale e copiano tutto ciò che gli capita in giro come un qualsiasi blogger preso a caso, beh, non vedo più nessuna differenza.»

La storia finisce con il ravvedimento del Corriere della Sera, che inserisce la citazione del sito di Paul The Wine Guy, ovviamente senza link. Ma è proprio l’osservazione di Paul che sintetizza, insieme alle discussioni tra giornalisti illuminati come Alberto D’Ottavi e Vittorio Pasteris, l’insegnamento di questa vicenda: la “blogizzazione” dei giornali è un processo complesso, che avviene in un momento storico in cui il diritto d’autore, in Italia, viene gestito in maniera bizzarra, tra vincoli a senso unico e immagini da “degradare” ai sensi di legge. Ecco, Paul The Wine Guy deve anche stare attento: a quest’ora avrà la SIAE alle calcagna per la pubblicazione delle opere d’arte…

Sia lode a Mediaset (strano)

Dopo mesi di promozione incrociata, finalmente sbarca su Italia 1 il telefilm Ugly Betty. Si tratta di una serie divertente e soprattutto ironica, prodotta da Salma Hayek, compagna di Francois-Henri Pinault e quindi milionaria europea ad honorem. I suoi soldi la Signora Salma li ha spesi negli Stati Uniti, visto che la serie parla della realtà aziendale nord-americana alle prese con le discriminazioni verso i latino-americani. Betty è brutta ma buona, imbranata ma intelligente: è un po’ il prototipo di quelle ragazzine da film aggiustate malissimo che, dopo un’opportuno rifacimento di immagine, diventano top model. La differenza è che Betty continua a restare dolcemente mostruosa ad oltranza.

Non è la messa in onda di Ugly Betty, tuttavia, la notizia che fa esprimere plauso e stima (e basta, non esageriamo) al management Mediaset: è piuttosto l’acquisizione della maggioranza, primo passo verso un controllo al 100% con contestuale delisting del titolo, della rinomata Endemol. Sì, proprio lei, la casa di produzione del Grande Fratello e di tutti i suoi fratelli,  la fucina creativa delle trasmissioni più amate nel mondo ed in Europa in primis. Una società che negli anni della bolla da new economy era finita ingiustificatamente nell’orbita Telefonica ed ora torna ad essere controllata da un player del suo mercato originale, già integrato a monte con il mondo delle concessionarie di pubblicità.

I più cattivi ricorderanno il legame tra Aran Endemol (la versione storica in Italia della fabbrica dei format) con la famiglia Craxi e le querelle politiche che erano scaturite a proposito dell’uso della società come clava nei confronti dei nemici politici di Berlusconi. Qui su .commEurope regna la bontà come nel Mulino Bianco e perciò si dimenticano i risvolti della solita politica italiana, che sicuramente prenderà di mira la vicenda. Meglio concentrarsi sul valore industriale dell’acquisizione e sul nuovo ruolo che Mediaset potrà svolgere a livello europeo e non: a partire dall’Italia, dove la principale cliente di Endemol è probabilmente la Rai (vedi Affari tuoi), cioè la società che dovrebbe rappresentare la concorrenza a Mediaset stessa.

Discorso simile, tra l’altro, vale in altre nazioni dove il Biscione è presente (vedi Spagna): acquisendo un importante attore del mercato, si aumenta la verticalizzazione e si privilegia un investimento sensato ed in linea con lo sviluppo del Gruppo, piuttosto che tentare nuovi excursus in terreni minati (cfr. le disastrose esperienze di Jumpy o Pagine Utili). L’importante è che Mediaset lasci correre la fantasia degli autori Endemol a briglie sciolte: perderà qualche progetto Rai in Italia, ma potrà aumentare sensibilmente la sua rilevanza nel mondo dei media internazionali. Ed in Italia, magari, si aprirà qualche spiraglio in più per la concorrenza, tanto per uscire dal solito giochino a tre Endemol vs. Einstein vs. Magnolia.

La febbre delle foto

Ad inizio marzo la stampa alternativa pone l’accento su una vicenda da un lato bizzarra, dall’altro decisamente negativa: la versione cartacea de Il Corriere della Sera qualche mese prima ha pubblicato un articolo su Guantanamo allegano un’immagine tratta dalla locandina di un film invece che un’immagine reale dell’infermo americano. Tanto scalpore, niente scuse ufficiali ed un messaggio del presidente dell’Ordine dei Giornalisti al free-lance della serie “tutti possiamo sbagliare”. A dire della redazione, la colpa sembrerebbe da attribuire ad un’erronea ricerca su una banca dati fotografica commerciale.

Primo d’aprile: Luca Zappa, un blogger con la passione della fotografia, scopre che una delle sue foto è stata pubblicata nell’ambito di una delle mille categorie gallerie pubblicate ogni giorno dai principali quotidiani on line, Repubblica.it in questo caso. La sua denuncia non rimane isolata: poche ore dopo, su Flickr, persone di tutto il mondo iniziano a discutere i furti delle proprie immagini da parte dei quotidiani italiani. Il buon Pandemia avvia il dibattito su questa pessima abitudine e piano piano tutti i maggiori blogger italiani hanno iniziato ad inveire contro lo scarso (anzi, nullo) rispetto dei diritti da parte di Repubblica.it, che negli stessi giorni ha avuto il coraggio di esaltare i propri record di traffico.

Il risultato del Pandemonio sembrava essere di segno positivo: Repubblica.it aveva iniziato a pubblicare forme primordiali di riferimento all’autore delle foto, pur continuando ad ignorare le caratteristiche delle licenze pubblicate su Flickr e su altri siti simili, vero e proprio serbatoio di foto a costo zero per i quotidiani. Non solo di quelli on line, però: è proprio di ieri la “denuncia” di Macubu, un blogger genovese, rivolta a La Repubblica cartacea, edizione genovese. Il quotidiano ha infatti pubblicato una sua bella foto, senza citare i riferimenti all’autore che, se non altro per quanto riguarda la stampa cartacea, è espressamente previsto dalla Legge. Nel frattempo, passata la burrasca, anche i credits sono (ri)scomparsi dalle gallerie della versione digitale, ormai sempre più spesso “blindate” in Flash.

Sia detto che la cattiva abitudine, in realtà, non è solo quella del Gruppo L’Espresso: poche ore fa anche Corriere.it ha dovuto pubblicamente scusarsi per aver rubato una foto dal sito di una blogger. Per aggiungere torto su torto, l’immagine è anche stata usata in un pessimo contesto: si trattava infatti di un articolo su una hostess dedita alla prostituzione. Se teniamo questo ritmo, prossimamente ogni articolo, dal giallo di Cogne al dibattito politico internazionale, sarà accompagnato dalla foto (ottenuta senza rispettare la licenza, ovviamente) di un blogger: possibilmente, super-decontestualizzta e magari scelta a casaccio. Tanto è gratis!

Io voglio il DVD, tu vuoi il film

Giacciono indisturbati sui loro espositori i DVD “usa e getta” che 01 Distribution ha annunciato qualche settimana fa: il filo di polvere che li ricopre nel punto vendita di MediaWorld dentro l’OrioCenter (per la cronaca, il centro commerciale più grande di Italia) è probabilmente colpa del cartello bianco scritto col PC che evidenzia la durata massima di 48 ore. Sorge il dubbio che sia stato messo lì dopo le proteste di chi, attratto dal prezzo inferiore a 10 Euro, avesse pensato di fare un affarone nel comprare La febbre o The Aviator, seppure in un’orripilante confezione cartacea (anch’essa) usa e getta.

In apparenza, si tratta di un’idea realizzata con troppa rapidità rispetto alle esigenze del mercato: è come se una volta scoperta la disponibilità dei DVD degradabili francesi, si fosse voluto a tutti i costi riempirli con contenuti ritenuti interessanti per il pubblico europeo. A leggere le dichiarazioni del manager che ha lanciato l’iniziativa, i problemi sembrano derivare da una cattiva analisi del target: sicuramente non i grandi cinefili, che probabilmente saranno poco sensibili al tema prezzo pur di avere un prodotto di qualità e comunque saranno già abbonati a Sky Cinema, ma nemmeno coloro che non hanno voglia di riportare il DVD al punto vendita in cui l’hanno preso. Per costoro, interessati solamente a passare una serata senza TV, persino il cestone pieno di film a 2,90 Euro posto di fronte ai DVD monouso presenta idee carine.

Non è l’unica idea distributiva di questo 2006 e non sarà l’ultima: viene dopo i squilli di trombe relativi allo streaming messo a disposizione dalle major di oltreoceano a prezzi non proprio popolari (ed errati) e si confronta sul mercato italiano con l’iniziativa di Alex Infascelli, che ha distribuito il suo nuovo H2Odio solamente in edicola ed in download dai siti del Gruppo L’Espresso. Tanti piccoli tentativi di ribaltare la logica attuale di distribuzione cinematografica, soprattutto per quanto riguarda le modalità di godimento delle prime visioni.

Che il P2P faccia paura non è una novità e può essere ritenuto più o meno giusto, più o meno saggio combatterlo e non affrontarlo a viso aperto: al momento, però, produttori e distributori brancolano nel buio. Si continuano a cercare i colpacci da prima visione e si dimentica il valore della coda, si cerca di spremere pochi limoni costosi e si ragiona sempre sullo strumento di trasmissione, raramente sul contenuto. I collezionisti di DVD si accaparreranno qualsiasi cosa appaia nei cesti, ma chi è convinto che un ben determinato film gli abbia cambiato la vita, sarà disposto ad acquisire qualsiasi briciola multimediale che lo ricordi, al di là del supporto. Fin quando continueremo a confondere i due target, continueremo a produrre mostri. Degradabili.

Il riconoscimento ufficiale della musica digitale

In un impeto di buon senso, non così scontato viste le performance degli ultimi anni, la Fimi ha riconosciuto che 14 milioni di download in un anno sono una cifra consistente per un paese da 60 milioni di abitanti e pertanto ha ritenuto di regalare alla musica digitale un riconoscimento ufficiale: evento che avviene attraverso l’avvio della classifica musicale dedicata, con cadenza similare a quelle più tradizionali dei dischi di Luttazziana memoria. Un giro di affari da 11,6 milioni di Euro che, per l’asfittico mondo discografico italiano, è pura manna dal cielo, viene finalmente dimensionato e promosso.

Gli attori principali del mercato partecipano tutti alla rilevazione: dal classico iTunes italiano a MediaWorld, da MTV a Coca Cola (…), i paladini della musica digitale italiana sono un po’ quelli che regnano in tutta l’Europa. Mancano però Libero, RossoAlice e le compagnie telefoniche: dato che sorprende solo parzialmente, vista la notoria diffidenza delle TelCo nel mettere in piazza i numeri dei propri giri di affari. Il problema non è indifferente: se da un lato è male che la classifica ignori le produzioni indipendenti, in questo caso è un vero problema il fatto di non riuscire a determinare un pezzo rilevante del mercato.

Incredibile o meno che sia, infatti, l’80% della musica downloadata è destinata ai cellulari: per la maggior parte si tratta di suonerie o quantomeno di brani destinati a diventarlo. Non è difficile immaginare che i 190 negozi censiti in Europa debbano molto ai produttori di telefonia mobile: non c’è niente di meglio di un mercato che nasce dal nulla, si fortifica nel giro di pochi anni e soprattutto è fortemente radicato tra i più giovani, clienti che hanno anni di potenziali download davanti.

Peculiarità ancora una volta italiana, comunque: in Gran Bretagna come negli Stati Uniti, è la musica “vera” e non le suonerie TrueTones che produce il maggior fatturato alle major discografiche. Sarebbe curioso capire quanto la preferenza per la “musica in miniatura” condizioni i gusti: la prima leader della classifica è Gianna Nannini, poi seguono le hit radiofoniche del momento. Siamo al 4% del mercato discografico nazionale ed al 6% di quello mondiale: vedremo se sarà il gusto a determinare le suonerie, o il dover creare musica per suonerie ad incidere sui gusti.

L’osso riflesso nello stagno è più pericoloso delle indigestioni

Lo insegnano le favole: il cane che nella speranza di fare il colpaccio ed ottenere anche l’osso riflesso nello stagno alla fine perderà quello che teneva saldamente in bocca. Così sembrano comportarsi le major discografiche che, ormai dimentiche di ciò che sono state le indigestioni commerciali del passato cercano di trattenere a sé i pochi acquirenti di dischi originali rimasti. Persone che vivono questa passione con difficoltà: devono pagare almeno una ventina di Euro per ottenere un CD che, nel migliore dei casi, non è fruibile nemmeno sul proprio PC personale.

Ci sono anche gli stereo fatti apposta per quello, diranno le nostre, spesso produttrici di hardware hi-fi. Osservazione banale, visto che ormai difficilmente il nostro povero melomane passerà le proprie giornate a fissare lo stereo comodamente sdraiato in salotto: probabilmente, proprio perché appassionato di musica, proverà ad utilizzare il suo prezioso CD nuovo ovunque, dall’auto al PC al lettore portatile. Realisticamente, avrà anzi ormai dimenticato quest’ultimo a favore di un banale MP3 player che gli consenta di scarrozzare in giro per il mondo la sua intera collezione di CD preziosi.

Il consumo della musica, è facile notarlo, è notevolmente cambiato. I sistemi anticopia delle major fanno o ridere o piangere, a seconda del proprio posto nella “catena alimentare” del consumo musicale: non riescono minimamente a scalfire lo strapotere di chi copia la musica per trarne profitto sulle bancarelle europee ma raggiungono il raggelante obiettivo di stremare il Cliente. In un impeto di irresponsabilità sociale, anche nella vecchia Europa arrivano le major ad adottare sistemi di dubbia qualità che eccedono nello zelo e non solo vietano la copia indiscriminata dei contenuti audio, ma per sicurezza installano anche preoccupanti software di controllo “nascosti”.

Ormai il caso Sony è scoppiato e l’immagine della società rischia di risentire pesantemente di questa ennesima “furbata” che, nella speranza di salvaguardare parzialmente il lato finanziario, distrugge completamente quello commerciale. I giornali ormai parlano di virus installati da Sony sui PC dei clienti e nel frattempo c’è chi approfitta dei buchi si sicurezza lasciati aperti per creare davvero dei trojan. Come sempre succede in queste brutte storie di malsana comunicazione aziendale, partono già le prime recriminazioni ufficiali dei Clienti dei 2 milioni di CD venduti: valeva davvero la pena di sottoporsi a tutto questo stillicidio mediatico per evitare qualche MP3 di troppo?

La SIAE alla frutta

Già non particolarmente amata (da nessuno), la SIAE è ultimamente al centro di attacchi da tutte le parti. Bisogna ammettere che la Società Italiana degli Autori ed Editori non brilli per trasparenza, ma effettivamente l’odio collettivo nei suoi confronti sta raggiungendo livelli di guardia, con seri rischi per il delicato tema del diritto d’autore in Italia.

Ormai l’organizzazione non viene biasimata più solo dai cittadini comuni: anche le Istituzioni ne diffidano e importanti organizzazioni ne chiedono la riforma. Dopo le insistenti richieste di commissariamento da parte dei Sindacati, ora è il turno dell’Associazione Sistemi e Supporti Multimediali (ASMI), che ha presentato un’azione legale contro la SIAE.

I numeri in gioco sono impressionanti: su un fatturato annuo di circa 700 milioni di Euro, la sconfitta legale con l’ASMI potrebbe provocare un ammanco di 70-80 milioni. Dall’altra parte, l’Associazione dei produttori reclama un crollo delle vendite del 40%, che viene legato al rincaro fino al 60% nel prezzo dei supporti multimediali, a causa dell'”ecquo compenso”.

Si tratta del balzello che, una SIAE ormai evidentemente alla frutta, ha negli anni introdotto e progressivamente reso più caro, facendolo incidere su ogni singola transazione: ogni disco venduto al cliente finale prevede infatti questo tipo di costo extra. Chissà come andrà a finire la faccenda… L’importante è che anche il diritto d’autore non finisca alla frutta!