Io compro qui (o forse no)

Si discute animatamente, su dot-coma, dell’onnipresente campagna pubblicitaria di Monclick, il nuovo megastore virtuale di Esprinet. Campagna onnipresente solo a Milano, a dire il vero: città come Bologna o Roma, si scopre confrontando le esperienze, non sono state toccate dai manifesti. Si sa che gli acquirenti dell’e-commerce stanno in Lombardia e si rimane lì: anche gli analisti finanziari, altrettanto residenti a Milano e dintorni, rimarranno soddisfatti da una tale campagna vecchio stampo.

Nulla da eccepire sulla scelta di Linus come testimonial, visto che è un personaggio mitologico che, attraverso i secoli, riesce sempre a conquistare le fasce cool della popolazione. E si sa, che gli acquirenti dei siti italiani sono personcine cool.

Si sa, inoltre, che ormai il settore ICT offre margini così marginali (!) da rendere micidiale la lotta per il profitto: i vendor à la Apple ormai vendono tantissimo on line persino in Italia, senza arrivare a player puri come Dell. Esprinet rischia la fine dei vari Opengate e Tecnodiffusione, se non trova nuove forme di guadagno attraverso la conquista di nuovi clienti: se si sa come trattare i buyer delle aziende della GDO si sa anche vendere direttamente ai consumatori, no? No.

Per non farsi mancare nulla, si sa anche che, per lanciare un sito di e-commerce, è necessario spendere 2 milioni di Euro tra affissioni, stampa e TV e 500mila Euro sul Web. Un po’ come se si volesse aprire un centro commerciale a Lambrate e si facesse pubblicità sulle reti televisive nazionali: fa branding. Si sa che bisogna educare gli italiani a comprare on line. Basta sponsorizzare la metropolitana milanese ed automaticamente si convincerà i passanti a: 1) iniziare a navigare sulla Rete; 2) cominciare ad acquistare sulla Rete; 3) spendere il proprio budget ICT su Monclick.

Non c’è speranza di orientarsi verso la gente – quella sì veramente cool – che vive serenamente il rapporto con la Rete e capisce in base alla propria esperienza dove andare a comprare. Gli analisti li ritengono nerd con pochi soldi in tasca, non vale la pena di inseguirli.

La palla di cristallo 2005

Con il consueto acume, Mr. [mini]Marketing nei giorni scorsi ci ha illuminato sulle sue valutazioni relative al 2004 e sulle previsioni per il 2005. Un gioco affascinante, che si può prendere ad esempio: cosa aspettarsi dal 2005? Tanto per rimanere nel campo dei temi prediletti su .commEurope, cosa succederà nel campo della comunicazione, dell’e-commerce, delle comunità virtuali in Europa?

In termini di comunicazione aziendale, è probabile che le nuove forme di advertising on line si affermeranno, segnando la morte definitiva di banner e similari: anche in Europa sfonderanno Google AdWords ed Overture, travolgendo progressivamente le altre forme di promozione. Non solo on line: su alcuni segmenti ben definiti di business (ovviamente quelli legati a telematica ed e-commerce in primis), ragionevolmente gli investitori europei capiranno che prima di spendere milioni di Euro in TV, sarà il caso di spendere qualche centinaia di migliaia di Euro in keyword advertising.

Nell’e-commerce, la palma andrà a Trenitalia, non solo per l’Italia: se il management dell’azienda proseguirà sulla bella strada multicanale vista in questi ultimi mesi, c’è da scommettere che le transazioni on line aumenteranno a dismisura. Sulla Rete è possibile veicolare offerte promozionali mirate e Trenitalia progressivamente lo capirà: per il 2005, forse, rimarrà su binari più canonici, ma prenderà il volo in termini di ampiezza dell’offerta. Se non lo farà, segnerà un passo indietro del tutto ingiustificato, rispetto alle promozioni furbette viste negli ultimi mesi.

Forse solo in fase embrionale, ma nel 2005 potrebbe maturare il fenomeno dei wiki. Probabilmente diventerà (magari solo negli anni successivi), la prossima buzzword dopo “blog”, che realisticamente per il 2005 continuerà a primeggiare: ma già nei prossimi mesi potremmo vedere Wikipedia venire affiancata da una serie di progetti paralleli creati da comunità predefinite o autocreatesi in base ad interessi specifici. L’importante è che ciò avvenga in tutte le lingue europee, senza lasciare il predominio alla solita lingua inglese.

Magari tutto ciò succederà, oppure non succederà affatto. Di fatto, sarebbe un bene per tutti che le aziende ferroviarie di tutta Europa prendessero esempio da Trenitalia così come vedere fiorire un bel bouquet di wiki indipendenti e ricchi di informazioni, magari scevri da banner e pesanti animazioni promozionali in Flash. In ogni caso, buon 2005 a tutti, markettari e non.

Un nuovo tipo di e-commerce, direttamente dalla nuova Europa

Sebbene il sito protagonista di questa storia non è europeo ma australiano, sono europei gli artefici del ricatto che ha messo in ginocchio MultiBet. Degli intrapendenti cracker lituani sono riusciti ad ottenere 20.000 dollari statunitensi minacciando di bloccare all’infinito con un denial of service distribuito. L’e-business secondo i lituani.

In realtà, al di là della storia specifica e dei protagonisti, il caso potrebbe divenire seriamente preoccupante se tramutato in pratica corrente: anche perché l’alternativa, i 35.000 dollari mensili che il proprietario doveva pagare per un sistema di protezione dagli attacchi, sono solo l’altra faccia della medaglia. Si può rifiutare di pagare il “pizzo” e ricorrere alle tecnologie, ma si rischia che le tecnologie di sicurezza costino più dell’estorsione stessa.

Tutto ciò, va notato, grazie ai milioni di PC – zombie che, infettati da uno degli infiniti trojan visti negli ultimi anni, sono sempre lì pronti per far danni. Nonostante le indagini britanniche, i cracker dell’Europa orientale sono preparati e decisi: il gioco è solo all’inizio, dopo i bookmaker australiani verrà il turno di molte altre aziende e proprio l’Europa sarà un ottimo bersaglio…

La strana parabola di Esperya

In mezzo alle tante traiettorie strambe dell’e-commerce italiano, qualche anno fa sembrò svettare un’iperbole: un luogo unico, dove si incrociavano qualità ed uso sapiente degli strumenti della Rete, comunità in primis. Si trattava di Esperya, naturalmente.

Antonio Tombolini, il suo fondatore, era così fiero della sua creatura che quando la disastrosa gestione del gruppo L’Espresso portò la società alla rovina, si propose di ricomprarla: venne invece licenziato… Una storia delirante che ricorda da vicino quella di Clarence, un’altro gioiellino della Rete europea, oggi svuotato di significato.

Nel frattempo, Antonio è impegnato non solo a bloggare con arguzia su Simplicissimus, ma cerca (da ormai due anni) di far volare il suo nuovo sogno visionario, Vyta. I nuovi padroni di Esperya, quelli di Sogegross, hanno acquistato un brand storico, 25.000 clienti registrati e poco di più. Hanno acquistato, soprattutto, una parabola che discende. Speriamo non la mandino definitivamente a zero utilizzando banalmente il marchio per rilanciare il loro supermercatino on line

La [ennesima] favola triste di Chl

Il buon Massimo Moruzzi si è invischiato in una polemica infinita a proposito del tramonto di Chl. Come spesso succede in questi casi, è difficile scindere l’aspetto “umano” della vicenda da quello commerciale, di marketing e soprattutto finanziario e strategico.

Al Moruzzi viene contestato il troppo pelo sullo stomaco a proposito del commento critico sulle scelte del management ed i relativi effetti sulla decimazione del personale: eppure, anche chi non ha vissuto quegli anni di “spese pazze” in maniera troppo coinvolgente conosce Chl, come cliente o semplicemente perché ha visto le campagne pubblicitarie. Magari senza comprenderle: ognuno ha una zia (od una mamma) che davanti alle campagne del periodo IPO non capiva minimamente di cosa si stesse parlando.

Non era il target, certo. Ma se si fosse veramente voluti arrivare ai numeri mirabolanti del prospetto informativo, si sarebbe dovuta immaginare una clientela ben più grande dei soliti utenti appassionati di hardware. L’arrivo dei fratelli Franchi, probabilmente, ha solo fatto tramontare del tutto l’illusione di un soggetto e-commerce credibile a livello italiano. Rimangono solo le briciole: aspettiamo il momento in cui CDC acquisirà Chl per utilizzarlo come ennesimo retail brand. Sempre se non falliscono pure loro, vedi Opengate.

Un GigaStore = 1.024 * 1.024 KappaStore?

La trasformazione in corsoLa bizzarra equazione del titolo è ciò che deve aver mosso il reparto marketing di Basic.Net a seguire le indicazioni dei techie-guys dell’azienda (Marco Boglione in primis, verrebbe da dire) nel cambiare il nome al celebre KappaStore, da oggi TheGigaStore.com.

La scelta è dovuto alla licenza acquisita lo scorso dicembre dei marchi Superga e K-Way. Ora il negozio virtuale dovrebbe vendere anche i prodotti di queste nuove linee. Peccato che di Superga vengano proposti pochi item e per K-Way il link è addirittura predisposto ad una pagina di errore.

Vedremo come si evolverà il negozione. A livello di interfaccia e di fruibilità del sito, non siamo troppo lontani da quella di AlloSpaccio.net e degli altri mille portali e siti del gruppo. Cercasi un nuovo designer e soprattutto un nuovo interface developper

Brevettando l’imbrevettabile

Ore frenetiche per le istituzioni europee: il Consiglio Competitività dell’Unione Europea deve dare l’avvallo alla direttiva sulla brevettabilità dei prodotti informatici. In questa sede, quello che preoccupa di più sono i confini della normativa: una cosa sono i “software”, un’altra i protocolli di Rete, un’altra le interfacce, un’altra le piattaforme e-commerce e così via.

Il comportamento della Presidenza irlandese, che in un sol colpo ha eliminato tutto il lavoro del Parlamento europeo, non piace a molti: ai tedeschi così come ai belgi, ai ministri italiani in carica alla maggioranza come all’opposizione. A livello europeo, Verdi e radicali si battono per non far passare l’atto ritenuto illegittimo.

Si dice che la responsabilità del comportamento irlandese sia nascosta (ma non troppo) nel forte flusso di capitali che hanno reso l’Isola il fulcro felice dello sviluppo tecnologico nel Vecchio Contenente: principalmente derivanti dalle industrie informatiche d’oltreoceano. Persino il glorioso Trinity College si sarebbe riciclato come fornace di infidi brevettatori.

Sarebbe un errore, comunque, catalogare necessariamente BSA e similari tra i “cattivi”: recentemente una rappresentante dell’Alliance ha brillantemente espresso la posizione dell’industria del software sul Decreto Urbani, altra brillante spada di Damocle sul mondo Web (stavolta solo italiano, con nostro grande orgoglio). In termini di e-commerce, d’altra parte, già qualche tempo fa la Foundation for a Free Information Infrastructure mise on line un’inquietante paginetta che elencava gli incredibili brevetti già registrati in questo campo.

Il punto è che i brevetti, di per sé, non sono un male. Come il copyright in genere, sono una forma di protezione della proprietà intellettuale, cioè l’unico patrimonio di molte aziende del terziario. Ma il passato insegna che il modello americano dell’iper – brevettabilità genera mostri: il caso Sco / Linux insegna.

Bancarotta virtuale e fallimenti reali

La mente corre a qualche anno fa: Zivago e Giacomelli Sport offrivano degli interessanti programma di affiliazione ai partner italiani, qualche utente comprava e tanti pubblicitari mangiavano… Zivago fallì poco dopo: Feltrinelli ed Espresso si erano stufati di buttare soldi. Gli amministratori straordinari inviarono pagamenti da 2-3 Euro ai partner che avevano raccolto commissioni.

Giacomelli, invece, era solo l’emanazione on line di un gruppo ben radicato nella grande distribuzione: uno dei leader europei del settore sportivo, con marchi in Italia come Longoni o, appunto, Giacomelli. Zivago, almeno, ebbe il buon senso di non quotarsi in borsa: Giacomelli l’ha fatto nell’estate 2001.

Tornando ad oggi, la notizia che colpisce è quella dell’arresto del management dell’azienda sportiva, fondatore compreso. Si parla di 500 milioni di Euro di debiti e di 2.100 fornitori che hanno chiesto il fallimento. Ma, soprattutto, di quasi 300 persone in cassa integrazione.

OK, non era un’azienda “del mondo virtuale”. Ma era una delle tante che aveva cercato di succhiare il sangue dall’e-commerce, in un momento in cui la Rete sembrava non decollare. Un’altra croce rossa sulla lista. Sperando che sia l’ultima.

Donne in vendita vs. dating

Per chi vuole ridere un po’, un giretto su DonneRusse.com potrebbe dare un bel po’ di spunti: ci sarebbe da chiedersi se la traduzione è autoctona o magari hanno anche pagato qualcuno…

In realtà, il giro di affari che c’è dietro questo tipo di sitarelli non è da sottovalutare: non a caso fioriscono concorrenti amanti della bagna cauda, in Europa e non. Dov’è il confine tra tratta delle donne ed agenzie matrimoniali?

Qualcuno sembra confondere ulteriormente le acque, scambiando servizi di dating come Meetic per vendita di uomini e donne: nel bene e nel male, i servizi del leader di origine francese sono tutt’altra cosa. Un business pulito, che macina utili. Tanti. Merito, probabilmente, del country manager, Massimo Moruzzi: famoso per il suo blog dot-coma, il talentuoso 31enne riesce a conciliare preferenze degli utenti e redditività: speriamo che molti prendano esempio…

Furti di carte di credito e furti di identità

Il rapporto Istat citato ieri ci ha raccontato che per il 66,1% delle aziende il principale ostacolo alla vendite on line è la sicurezza dei pagamenti. Il tema, d’altronde, è un classico della Rete europea e non. Probabilmente la modesta diffusione delle carte di credito ed i costi non troppo trasparenti che le banche europee addebitano agli utenti (pensiamo alle spese mensili di estratto conto o al bollo previsto in Italia per importi superiori all’ottantina di Euro) e le “favole” negative che circolano da anni sono ancora una spada di Damocle sullo sviluppo reale del commercio elettronico.

Non che non ci siano problemi veri: oggi Punto informatico ha pubblicato un interessante articolo intitolato Furto d’identità, la Ue segue gli Usa, a proposito delle prospettive di miglioramento della pessima legislazione attuale in tema di identity theft. Un tema che qualche settimana fa aveva fatto scalpore con il caso giapponese Softbank Corp ed i successivi dati diffusi dagli organi di stampa: i dati che vengono sottratti sono quelli anagrafici, ma anche le coordinate bancarie…

Poi c’è il grande mondo delle carte di credito: proprio oggi viene da Reggio Emilia la notizia di una grossa truffa avviata utilizzando numeri di carta di credito non ancora utilizzati. La cosa interessante è che, seguendo i link dell’articolo del Corriere della Sera sull’argomento, si scopre che non è certo la prima volta che avviene. Se nel giugno 2001 una mega-operazione aveva arrestato i 32 responsabili di una truffa lombarda da 5 miliardi di lire, ad inizio marzo 2004 a Verona era stata scoperta l’ideona di un rumeno e dei suoi complici ristoratori.

Attenzione a quest’ultimo particolare: le operazioni citate, sono relative a truffe organizzate e realizzate del tutto off line. L’arguto Raimondo Boggia l’ha detto e scritto più volte: siamo così sicuri quando utilizziamo la carta di credito in giro per il mondo o, addirittura, in un ristorante di Verona o nelle boutique milanesi? Più che durante le transazioni su server sicuri, in cui non c’è traccia di intervento umano? Perché? Riusciremo ad ammettere che le paure sono leggittime, ma devono essere equilibrate?