Che fine hanno fatto le pornostar?

La locandina della Mostra su CicciolinaC’è stato un tempo in cui in Europa le pornostar erano continuamente sui palcoscenici più prestigiosi: negli anni Ottanta in Italia arrivavano persino in Parlamento, negli altri paesi europei spadroneggiavano sugli schermi televisivi. Tendenza in seguito importata in Italia, grazie alla generazione di Moana – Cicciolina: antesignane di un doppio ruolo vissuto nell’immaginario degli uomini nelle situazioni più estreme e contemporaneamente nei salotti televisivi.

L’assioma era semplice: chi sapeva rubare i sogni più intimi di notte, accumulava una notevole forza comunicativa di giorno, utile per poter interpretare ruoli non scontati e provocatori sui palcoscenici più illustri. Moana e le sue amiche non rappresentavano tanto l’idea delle “belle ed intelligenti”, quanto quella delle “sexy ma dotata di buon senso”. Basti pensare alla rilevanza che Moana Pozzi aveva assunto nell’immaginario culturale degli italiani, tanto da assurgere agli onori dell’imitazione del clan Dandini – Guzzanti. Populismo fatto carne, quello di Moana, che a posteriori è diventato santificazione.

Cicciolina aveva scelto un nuovo modo di comunicare: attraverso l’arte, che era entrata nella sua vita grazie al matrimonio con Jeff Koons, artista che l’aveva utilizzata come materia prima delle sue particolari opere d’arte. Non meraviglia tanto perciò che Ilona sia protagonista di una nuova mostra, questa volta fotografica. Si tratta, probabilmente, dell’ennesimo tentativo di ritrovare il suo posto nel mondo: una scelta che sa di voglia di vita più che di provocazione. Strana la vita delle pornostar, che sembra quella degli sportivi: facendo del proprio corpo il proprio lavoro, ad un certo punto scoprono che invecchiando il primo, perdono il secondo.

Una professione, quella dell’attore di film erotici, ormai svincolata dagli aloni della sporcizia da rimorso religioso. I protagonisti dei film hard dei padri diventano icone giocose per i figli: è l’ottica, probabilmente, con la quale si può leggere il riciclo di Rocco Siffredi in chiave pubblicitaria. La vecchiaia avanza ed è difficile immaginare che queste icone del sesso abbiano versato i contributi per la pensione: per quanti soldi possano girare nel mondo del sesso a pagamento, solo la minor parte arrivi agli attori, per quanto famosi. Il nome sopravvive al corpo: il buon Rocco potrà giocare col grande pubblico con doppi sensi e similari ancora per molti anni, mentre nell’ombra potrà produrre tutti i film hard che desidera e fa desiderare.

Cina vs. Mondo, 2 a 0

Il goal più importante che la Cina potesse segnare nei confronti del resto del mondo, l’ha già fatto qualche anno fa, aprendosi all’economia di mercato e soprattutto spalancando le proprie porte agli investitori esteri, ansiosi di avere manodopera a costo infimo anche per le lavorazioni più raffinate, quali quelle hi-tech o quelle dell’alta moda. In pochi anni, siamo arrivati al punto che – chiunque può verificarlo guardando i regali fatti a Natale – la maggior parte dei prodotti d’uso quotidiano viene prodotta proprio lì. Per ora, i marchi sono ancora quelli occidentali: presto i cinesi non dovranno nemmeno pagare questi balzelli ai marchi più noti, avendone appreso tutto il knowledge.

Il secondo goal la Cina lo sta segnando in questi giorni e le farà vincere definitivamente la partita: nonostante l’ottimismo di alcuni, sarà la Cina a cambiare il Mondo, più che Internet a cambiare la Cina. Un’azienda che prevede di duplicare i suoi clienti, in qualsiasi settore operi, si guarderà bene dal non rispettare le regole del mercato: i concorrenti ubbidienti sono dietro l’angolo. Non è così certo che sia stato un errore di business: un giorno forse persino Google si renderà conto di avere più utenti nella sola Cina, che in tutti gli altri Stati del mondo messi insieme.

Ogni volta che si discute di dimensioni, in un Mondo che si muove ancora alla velocità del capitalismo industriale ottocentesco, insomma, la Cina sbanca, con le sue enormi economie di scala: produttrice per il Mondo ora, consumatrice del Mondo poi. I cinesi, nel frattempo, sono ovunque, per illustrarci la loro felice via alla globalizzazione: l’Italia impazzisce per la concorrente cinese del Grande Fratello, il Corriere dedica loro un’edizione in lingua madre, Michele Serra ci dimostra quanto la loro ridente comparsa nella nostra vita sia riuscita a mettere in luce le nostre contraddizioni culturali.

Per quanto Google possa ritenere dolorosa ma giusta la sua decisione in merito alle auto-limitazioni alla libertà di informazione, probabilmente sa che sta ancora una volta anticipando quella che sarà la nuova ondata sulla Rete. Le misteriose richieste statunitensi o gli imbarazzanti tentativi di oscuramento italiani sono i figlioletti della decisione-madre cinese. I Governi si sono resi conto che la Rete è ormai troppo libera per i tristi limiti normalmente imposti alla libertà di espressione nella vita quotidiana degli Occidentali: non esistendo vincoli tecnologici all’oscuramento delle informazioni fastidiose, tanto vale approfittarne gratuitamente.

Il marketing dei prodotti biologici cannibalizza i prodotti standard

La linea Prima Natura Bio di GranaroloSono obiettivamente buoni, i prodotti della linea Prima Natura Bio di Granarolo: prendiamo il burro, il più classico dei prodotti caseari, che il sito descrive come «pieno di… garanzie». Si tratta di un prodotto con un solo ingrediente, l’83% di materia grassa derivante «esclusivamente da panne di latte fresco da agricoltura biologica». Stessa quantità del prodotto base della Granarolo: la differenza è appunto la qualità del latte.

La confezione del burro Prima Natura Bio esalta ulteriormente questi aspetti:

«Burro PRIMA NATURA BIO da Agricoltura Biologica

L’Agricoltura Biologica è un metodo di produzione che opera nel pieno rispetto della natura, adottando solo tecniche di coltivazione che mantengono l’equilibrio biologico e tecniche di allevamento che rispettano il benessere degli animali ed escludendo l’uso di Organismi Geneticamente Modificati.»

Bellissimo, non c’è nulla da eccepire. Molto affascinanti anche l’etichetta relativa al “Controllo biologico” del Consorzio per il Controllo dei Prodotti Biologici, quella “Ricerche alimentari Granarolo – Rispettiamo l’Uomo e la Natura”, i riferimenti alla validazione ISO 9001:00 degli stabilimenti. Sembra di essere davanti al burro perfetto, naturale e rispettoso dell’ambiente e della salute umana. In confronto, il tradizionale burro azzurrino Granarolo, fa sorgere seri dubbi di coscienza: perché acquistarlo, quando non presenta tutte le garanzie elencate sul suo cugino verde? Resta solo, evidentemente, un tema di budget disponibile per ognuno dei mille prodotti che compongono la nostra dispensa.

In Italia, almeno, si rischia poco in termini di OGM: in alcuni paesi europei, al contrario, non è così infrequente incappare in prodotti in cui l’assenza di label “no OGM” non è casuale. Le maggiori catene di ipermercati, ad esempio, vendono ormai prodotti alimentari “primo prezzo” di vaghe origini, prodotti private label con un minimo di controlli, prodotti ecologici di marca (e non) con premium price. I prodotti di marca standard rimangono tramortiti, stretti tra alto e basso senza troppi razionali per essere scelti.

Il tutto dipende da decisioni internazionali di altissimo livello, quasi politico più che economico: il marketing tradizionale cerca di adeguarsi, ma vive un equilibrio instabile. Nel breve termine, si creano le premesse per prodotti destinati a target danarosi, ma nel lungo termine si uccidono i prodotti storici. Negli Stati Uniti, si ragiona per eccezione: nella stragrande maggioranza dei prodotti alimentari sono abitualmente presenti tracce di processi produttivi non troppo tradizionali ed i prodotti ecologici vengono venduti a caro prezzo. Probabilmente, anche l’Europa si sta avviando su questa strada: chi può, mangia naturale, chi no… Che fa?

Viene voglia di vederci chiaro

Uno sguardo indiscreto alla campagna VorticeTondo e snello, il sedere che ammicca nella campagna della storica azienda Vortice, fa davvero voglia di far svanire l’umidità che ne filtra i contorni: le donne per un rapido benchmarking, gli uomini per ammirare le rotondità di un corpo evidentemente femminile e, si direbbe, molto giovane.

Tutto in regola, per un qualsiasi magazine italiano. Un po’ meno, visti i precedenti, per i lettori scandalizzati persino dai costumi da bagno del più venduto settimanale del nostro Paese, Famiglia Cristiana. Una rivista che ha fatto la storia del costume italiano, che ha seguito gli italiani nelle loro migrazioni nel mondo e li ha riaccolti quando sono tornati nelle regioni d’origine, mantenendo il ruolo di specchio fedele di quei valori che, nel bene e nel male, in Italia la fanno da padrone.

La scelta è destinata a far parlare tanto di sé, anche oltre i limiti dell’interesse che merita. Tanta pubblicità gratuita anche per l’azienda di aspiratori, storico investitore dei periodici paolini. In ogni caso, sembra le stia andando meglio rispetto alla Sony, rea di una campagna blasfema, almeno a giudicare dal parere di Don Antonio Sciortino che, guardacaso, è proprio il direttore di Famiglia Cristiana e sulla campagna Vortice interviene a spada tratta per difendere la sua scelta “editoriale”.

Due pesi e due misure? Conta di più un’ironia fine a sé stessa della liturgia religiosa o il tradimento più o meno velato dei valori strombazzati come fondamentali dai tradizionali(sti) lettori della rivista cattolica? Per ora, il risultato della campagna Vortice consiste nel far parlare tanto dei protagonisti coinvolti, direttamente e non. La campagna Sony, invece, è stata ritirata con tanto di promessa che “non succederà più”.

Sarà interessante, comunque, vedere le reazioni dei lettori del settimanale paolino: potremmo prevedere rubriche epistolari infuocate. Alla fine della fiera, probabilmente, nessuna copia venduta in più ma neanche in meno, nessun aspiratore venduto in più e nessun aspiratore in meno: sarebbe strano che qualcuno decidesse di boicottare giornale ed aspiratori, per quanto possa essere contrario alle scelte di Sciortino. Che a trarne vantaggio diventando famosa possa almeno essere la modella dal bel sedere?

Aziende (auto)certificate ed etichette furbette

Marcatura CEEsiste dal 1993 e la incontriamo spesso: la marcatura CE di solito fa bella mostra di sé sui prodotti tecnologici, sui giocattoli, sugli occhiali da sole. Ad ognuno comunica qualcosa in maniera diversa, ma tutti sono sicuri che è un simbolo di sicurezza che le istituzioni europee affidano solo ai prodotti che rispondono agli standard. Sbagliato: la marcatura è frutto di autocertificazione da parte dei produttori: una volta apposta, la marcatura non ha scadenza e diventa un vero e proprio lasciapassare per tutto il mercato europeo, visto che nessuno Stato può rifiutare l’entrata sul proprio territorio di un prodotto che reca le due letterine magiche.

Ricicla (qualcosa)Quest’altro simbolo invece deriva addirittura dall’ISO, notoriamente fonte di rigide regolamentazioni. Anche in questo caso si tratta di autocertificazione, ma qui il dubbio è ancora maggiore del precedente: sebbene in tutti noi ormai susciti l’idea del riciclo, è ufficialmente permesso che la sua presenza su una conferzione possa significare sia che il prodotto ivi contenuto è riciclabile, sia che solo il contenitore stesso è riciclabile, sia che il prodotto è fatto di materiale riciclato, sia che è solo il contenitore ad essere di materiale riciclato. Chiaro esempio di comunicazione, no?

Isolamento elettrico di Classe IIIl doppio quadrato a sinistra è misterioso ma presente selettivamente su alcuni prodotti elettrici ed elettronici: come per tanti altri il consumatore spesso lo ignorerà totalmente. In realtà, dovrebbe servire a comunicare ai Clienti, quali sono i prodotti con isolamento elettrico di Classe II. Diffusa a livello europeo, sarebbe un’indicazione interessante poiché indicante una serie di prodotti le cui caratteristiche permettono di supporre una maggiore sicurezza anche in impianti elettrici senza collegamento a terra, situazione purtroppo non così rara in molte abitazioni del Vecchio Continente.

Decente entro 24 mesiIl barattolino a destra è invece presente sui prodotti igienici e cosmetici: basta guardare i propri e sicuramente lo si troverà, sebbene microscopico, visto che è obbligatorio. Sta ad indicare il Period after Opening, cioè il valore di mesi in cui il prodotto conserva uno stato di affidabilità e sicurezza. Forse in pochi pensano al fatto che prodotti delicati come le creme o i dentifrici stessi, quotidianamente a contatto con il nostro corpo, possano perdere poteri o addirittura diventare dannosi, dopo un certo periodo di contatto con l’aria. La tipica comunicazione pubblicitaria legata all’efficienza di questi prodotti effettivamente lascia supporre poteri magici insiti per natura stessa dei prodotti.

Magari, un giorno, ogni volta che si acquisterà un dentifricio per la casa al mare si penserà a guardare i mesi di validità, oppure si sceglierà un oggetto elettronico anche in base alle certificazioni di sicurezza segnalate. Per ora, guardiamo distrattamente ai simbolini che campeggiano sui prodotti che utilizziamo quotidianamente o li ignoriamo del tutto, visto lo scarso potere comunicativo con cui sono stati realizzati. A volte sono graziosi, in altri contesti magari rovinano il look di un oggetto a causa della loro stessa esistenza.

Non abbiamo grossa sensibilità su questi temi e probabilmente pensiamo che siano stati messi lì da qualche ente supremo per stupidi motivi burocratici, quali dazi assolti ed astruse verifiche di sicurezza in laboratorio. Per fortuna, la Banca Dati Marchi di Altroconsumo riesce a spiegare ai consumatori tutta la strana simbologia di matrice europea ed internazionale, distinguendo quelli veramente importanti da quelli che addirittura sono stati creati da alcuni produttori: sono avvertite le aziende furbastre.

A proposito di sodio, kilocalorie ed altri misteri alimentari

Tra le mille acque minerali in vendita nei supermercati italiani, spicca la Vitasnella, storico marchio ex Danone da anni protagonista di numerose campagne pubblicitarie. Il tono enfatico rispetto alla scarsa presenza di sodio nell’acqua viene ripreso anche dall’etichetta, che sul fronte grida «<0,002% Sodio» e sul retro offre poche informazioni sull’Analisi Chimica, come da Legge, oltre ad un interessante ovale promozionale, che recita (grassetti originali):

«Gli italiani consumano in media 5000 mg di sodio al giorno. La Soc. Italiana di Nutrizione Umana raccomanda di assumere al massimo 3500 mg. L’Acqua Minerale Vitas Vitasnella nasce dal cuore delle Alpi naturalmente con meno dello 0,002% di sodio per litro. Per questo è indicata nelle diete povere di sodio

C’è qualcosa di clamorosamente insensato, in questa etichetta. Infatti, analizzando il testo emerge che:

  1. Gli italiani consumano troppo sodio;
  2. Il sodio consumato giornalmente è addirittura oltre il 40% della razione giornaliera;
  3. Un litro di Acqua Vitas contiene una cifra infinitesimale di questa razione giornaliera;
  4. Si potrebbe intuire che quindi Acqua Vitas è buona per la generalità degli italiani, che soffrono del problema 1, poiché il suo consumo permetterebbe di non aggiungere ulteriore sodio alla propria dieta persino bevendo acqua;
  5. Al contrario, dal secondo grassetto sull’etichetta sembrerebbe essere indicata per quella sparuta percentuale di italiani che non si strafoga di sodio come da problema 1, ma al contrario è carente di sodio;
  6. Essendo indicata per chi ha carenza di sodio e contenendo una cifra marginale del consumo giornaliero come da punto 3, quante decine di litri dovrà consumare il povero italiano la cui dieta è povera di sodio per integrare il suo livello su standard opportuni?

Tralasciamo, per non infierire oltre, che da ormai anni ed anni la percentuale di sodio nell’acqua non è inferiore allo 0,002% per litro (meno di 2 mg/l) come gridato sull’etichetta ma, come recita l’Analisi Chimica dell’Università di Pavia, è di 3 milligrammi per litro. I neo produttori di Vitasnella hanno ereditato questo prodotto di successo dalla Danone e non hanno fatto il minimo sforzo per comunicare correttamente, oltre al togliere il logo del produttore francese dal fronte dell’etichetta e qualsiasi riferimento societario dal retro: tuttavia, non sono gli unici a sparare numeri ed informazioni a casaccio.

Lo fa anche McDonald’s, tanto per fare un esempio. Per comunicare fiducia ai suoi consumatori, ad esempio, ha adottato la buona abitudine di riportare i dati nutrizionali dei suoi prodotti sul retro dei fogli “NON PER ALIMENTI” (sigh…) che separano i viscidi vassoi dal cibo. Ad esempio, si apprende che la Coca Cola da 400 ml contiene 425 volte le calorie della sua alter ego Light (!) mentre quella da 250 ml solo 353 volte. Potere degli arrotondamenti?

Ma è facile fare scoperte più interessanti, anche solo rimanendo nel campo delle calorie: si scopre che a parità di peso (100 g), salse escluse, il prodotto che ha più kilocalorie sono i dolci Mandise, con 463 kcal. Se guardiamo la colonna dei kilojoule, però, la pole position è conquistata dal Pain au Chocolat, con 1.915 kjoule. Com’è possibile, visto che il parametro di conversione tra le due unità di misura è fisso? Mistero presto svelato: 100 g di Mandise dovrebbero valere circa 1.937 kjoule e non 1.637 come riportato nell’apposita colonna e quindi conquistare la (preoccupante) palma.

Morale della favola? I consumatori attenti passano persino il tempo a leggere le etichette dello shampoo, magari mossi da interessi professionali. Quelli meno sensibili si accontentano di messaggi e metamessaggi che gli uffici comunicazione delle aziende di FMCG passano loro: l’acqua “è buona” perché un giusto livello di sodio sostiene la lotta alla ritenzione idrica (leggi: addio cellulite), McDonald’s “è buono” perché inserisce complicatissime tabelle piene di numerelli (leggi: sono trasparenti). Altro che impegnarsi in grandiosi programmi di responsabilità sociale, qui basterebbe prendere in mano la calcolatrice prima di comunicare al grande pubblico.

Il trade off dei media commerciali è vecchio ma molto attuale

Sgomitando tra i mille film che affollano le sale cinematografiche in autunno, Good Night, and Good Luck si distingue per un’ottima gestione della fotografia e del montaggio. Peccato per la sceneggiatura poco curata, che tuttavia riesce a comunicare bene al pubblico europeo, che di questo film tanto ha sentito parlare a Venezia, l’importanza di rileggere il passato come insegnamento per il futuro dei media.

L’affascinante mondo delle redazioni CBS degli anni Sessanta diviene, infatti, metafora efficace per rappresentare quell’inquietante trade off che nell’ultimo secolo ha accompagnato il progressivo sviluppo commerciale della stampa, della radio, della televisione ed infine del Web. Quanto possono essere liberi gli editori, i giornalisti, i produttori, i registi la cui busta paga dipende dal produrre contenuti interessanti da vendere agli sponsor invece che ai lettori / spettatori / ascoltatori? Quanto possono spingersi nello schierarsi, nel denunziare, nel gridare la verità, consci che gli investitori preferiranno dei tranquillizzanti contenuti di intrattenimento a dei pedanti programmi di approfondimento?

L’Europa dei giorni nostri è lontana anni luce dagli anni del Maccartismo, ma vive quotidianamente i drammatici dubbi di Edward Murrow e dei suoi compagni: lo fa non solo nel panorama televisivo, in cui i player maggiori sono legati a poche famiglie onnivore e spesso invischiate col potere politico, ma anche sui mezzi più moderni. Il Web europeo in particolare, vive nella consueta mancanza di business model vincenti, che garantiscano a siti anche di grande rilevanza un futuro indipendente. E su un mezzo in cui pubblicità e contenuti sono ancora più miscelati rispetto a tutti gli altri, ciò può destare più di qualche preoccupazione.

Saranno sempre più notti insonni, quelle che i giornalisti più professionali ed i loro “clienti” più sensibili vivranno nei prossimi mesi di ormai consueta crisi economica, politica e sociale. Il pericolo di una nuova caccia alle streghe è sempre valido ed alcuni proclami guerrafondai degli ultimi anni sembrano essere andati in questo senso. C’è bisogno di tanta deontologia da una parte e di tanta disponibilità all’ascolto dall’altra. Good Night, and Good Luck.

La compromessa immagine della Banda d’Italia

Chissà perché a molti italiani Fazio piaceva e magari continua a piacere, nonostante la gestione allegra della Banca d’Italia in questi anni. A dire di Alberto Statera, ben 4 milioni di persone l’avrebbero votato qualora si fosse buttato in politica. Prospettiva inquietante, per un personaggio dal fare un po’ viscido che però ha sempre lavato la sua immagine spacciandosi per devoto.Le ormai note intercettazioni telefoniche distruggono non solo l’immagine del Governatore e non solo quella dell’Istituzione. Già negli scorsi mesi, il comportamento sopra le righe aveva creato molta diffidenza in tutta l’Europa: a questo punto, tutti i brutti presentimenti di olandesi e spagnoli (ma anche del resto dei professionisti della finanza europea) trovano riscontro nella realtà di un personaggio che ha cercato di difendere più che l’italianità del sistema bancario (già di per sé un valore non troppo nobile) gli interessi della sua Banda.

“Tonino” ed i suoi uomini di fiducia fanno rimpiangere i Governatori del passato: non tanto i simil – Baffi & Carli che di fatto negli anni Ottanta diedero luce agli scandali antenati di quelli odierni, quanto quelli che, un secolo fa, gestivano l’Istituto con fare magari disinvolto, ma con una chiara idea di bene pubblico in mente. L’immagine dell’Italia bancaria non è mai stata troppo positiva, ma non per questo tutta la colpa era la loro: in un Paese in cui manca del tutto l’idea della public company, difficilmente il sistema finanziario può garantire il giusto equilibrio del mercato.

Nel 2005 verrebbe voglia di mandare Fazio, i suoi scugnizzi ed i suoi amici banchieri / bancari a qualche corso di formazione in più: rovinare definitivamente l’immagine già abbastanza compromessa del sistema economico italiano è stato un passo falso micidiale. Gli italiani saranno pizza, mandolino, anema e core: ma in fin dei conti sono generalmente più onesti di come vengono considerati a livello internazionale. Certo, comunicare l’onestà di una classe dirigente in questo modo non è stato un grande affare.

Informare con i numeri

Nel numero 597 di Internazionale, la scorsa settimana, David Randall ha pubblicato uno dei suoi consueti articoli brillanti sul mestiere del giornalista: “Giocare con i numeri” è un avviso ai giornalisti per invitarli a non sparare numeri a caso, visto che quest’usanza potrebbe comportare ripercussioni ben più serie di quelli che, magari, sono i contenuti stessi degli articoli. La terza legge di Randall (“diffidate di qualsiasi cosa che abbia a che fare coi sondaggi”) viene ripresa anche nel microeditoriale iniziale, in cui Giovanni de Mauro parla della scarsa libertà di informazione dei colleghi italiani.

Nel numero odierno di Repubblica.it, uno degli spazi più prestigiosi dell’home page viene occupato dall’articolo intitolato “Gli italiani? Un popolo di bugiardi oltre un miliardo di balle all’anno”, che dimostra, con una messe di dati infinita, che gli italiani dicono 1,4 miliardi di bugie l’anno, con una media di circa 3,8 milioni al giorno. Segue un’ampia catalogazione di motivazioni e stili della bugia, ma anche un ampio spaccato sociodemografico che distingue i bugiardi per età, professione e luoghi comuni.

Nel numero odierno di Corriere.it, svetta uno strillo che richiama l’articolo “Gli italiani scelgono il nudo in spiaggia”, che ci rende edotti di un sondaggio via SMS condotto dal mensile Focus, utile a sostenere l’idea che «per 8 italiani su 10 stare nudi in spiaggia è assolutamente naturale e più del 58% degli intervistati è pronta a prendere il sole senza costume dove è consentito». Esulta la Federazione Naturista Italiana, che sulla scorta di questi sondaggi propone leggi ad hoc per salvaguardare 350.000 naturisti italiani auto-deportati ogni anno oltre confine.

Nel numero di notizie che ognuno di noi riceve ogni giorno, dalle fonti più disparate, quelle basate su sondaggi e pseudo – sondaggi occupano un marketshare molto alto. Repubblica.it ha fiutato l’interesse dei lettori per questo tipo di notizie e sovente le fa precedere da uno dei tre interstitial che intercettano il traffico che dall’home page porta agli articoli chiave della giornata. Che poi alcuni le prendano come spunto per una risata ed altri per una legge, è del tutto indifferente: notoriamente, il 100% dei lettori di .commEurope è soddisfatto della qualità degli articoli. Come non proporre un decreto legge per promuoverne la copertura finanziaria?

I disastri di immagine fanno male

Dopo le disavventure di Acer e OneMeet, dopo i rilasci affrettati di Google, stavolta è il turno di Timberland, protagonista principale, insieme a Puma, del bel dossier pubblicato negli scorsi giorni su Repubblica. Le parole trasmettono immagini strazianti, il rigurgito causato dalla lettura è forte: la risposta immediata è la solita, “Mai più”.

Neanche il fatto che, appena pochi giorni prima, Timberland avesse espresso il suo rispetto pubblico per le povere pecore merinos, oggetto di una campagna internazionale della Peta, ha potuto risollevarne l’immagine pubblica. Anzi: molti hanno visto nella dichiarazione pubblica un efficace lavaggio di immagine e nel dossier uno squarcio sulla realtà, rispetto alle “verità” da vetrina pubblicate sui siti ufficiali.

L’articolo è interessante perché non solo mette in luce la disumanità del lavoro dei poveri cinesi, ma offre anche cifre chiare: un paio di Puma costerebbero industrialmente 90 centesimi, più 6 euro di sponsorizzazioni sportive. Il dato è interessante perché dimostra che non è necessariamente la pubblicità il buco nero in cui finiscono i soldi degli acquirenti finali: è guadagno puro, del produttore e di tutta l’infinita catena distributiva.

I conti delle aziende coinvolte in questo tipo di torture, d’altra parte, sono chiari: meno di un mese fa la stessa Timberland, ad esempio, aveva rivelato un primo trimestre con risultati da sogno. Con l’utile in crescita del 36%, tanto per citare un dato, c’è proprio bisogno di far stramazzare gli operai dei propri fornitori? Se anche non lo si volesse fare per motivazioni etiche, da un punto di vista strettamente di business, che senso ha farsi del male, distruggere così il proprio marchio?