Siamo un po’ sotto schock

Siamo un po’ imbarazzanti quando facciamo la classifica dei peggiori eventi; quando di fronte all’orrore consumatosi nelle scorse ore a Parigi tutto sommato ridimensioniamo quanto successo a gennaio da Charlie Hebdo in poi e col bilancino posizioniamo i nuovi attentati dopo quelli del 2004 a Madrid, perché in fin dei conti il numero di morti è l’unico KPI cui guardiamo con sospetta attenzione.

Siamo un po’ terrorizzati quando sappiamo benissimo che prima o poi avverrà anche in Italia; non ci sono grandi razionali perché la furia cieca degli assassini continui a sfogarsi nel resto d’Europa e non da noi. C’è solo da sperare di non trovarci nel posto sbagliato al momento sbagliato: di sicuro chi abita a Milano, Roma, Venezia o Firenze probabilmente ha qualche preoccupazione in più.

Siamo un po’ manipolati quando non ci rendiamo conto che siamo i migliori alleati dei terroristi: ci teniamo ad aggiungere il peso da novanta a ogni avvenimento, aggiungiamo terrore a terrore sguazzando nei dettagli delle stragi, nella descrizione di profili e atti di chi ha speso la propria vita inseguendo un ideale di odio. Alcuni giornali in particolare sembra ci provino davvero gusto.

Siamo un po’ sognatori quando pensiamo che da un giorno all’altro tutto ciò finirà. Così, come è iniziato. Che a un certo punto non ci siano più attentati, massacri, stragi e decapitazioni. Che si possa tornare a uno stato di serenità che poi, nella realtà, non abbiamo mai vissuto davvero; in 60 anni siamo passati dalla grande guerra al terrorismo nero alla mafia al terrorismo islamico.

Nostalgia di Expo 2015

Da alcuni quartieri di Milano stasera era possibile vedere in lontananza i fuochi d’artificio per la chiusura di Expo 2015. Qualcuno tirava un sospiro di sollievo pensando ai treni della metropolitana che torneranno a svuotarsi; qualcun altro già si lamentava del ritorno “alla provincia” di un capoluogo che per qualche mese si era sentito “internazionale”.

In effetti qualcosa di Expo 2015 ci mancherà: la possibilità di avere delle finestre aperte sul mondo a pochi chilometri da casa, un sistema adeguato di trasporti pubblici, alberghi e ristoranti pieni di facce diverse. Nonostante le paure degli scorsi anni, alla fine bisogna riconoscere alla manifestazione di aver smosso per bene le acque negli ultimi mesi.

Allo stesso tempo non ci mancheranno i padiglioni sempre pieni, alcuni ristoranti interni a dir poco mediocri (ma con prezzi crescenti di mese in mese), il cattivo spirito di parte dello staff, probabilmente stremato da stipendi bassi e turni estenuanti. Tutti elementi che sarebbe interessante valutare in confronto ad altre manifestazioni simili in giro per il mondo.

La nostalgia per Expo 2015 la sentiremo comunque soprattutto nei prossimi mesi: quando la stazione dei treni non verrà più servita dai Frecciarossa (peccato, era comoda), i padiglioni inizieranno a cadere a pezzi e tutta l’area diventerà un lugubre ricordo di ciò che è stato. Qualcuno già dice che Sala su quella nostalgia ci costruirà una carriera politica.

London 2012, Olimpiadi antipatiche

Quando nel 2007 discutevamo della terribile scelta del logo-Lisa Simpson di Londra 2012, la crisi sconvolgente di questi ultimi anni era difficile da prevedere o anche solo immaginare. Avevamo dimenticato le modalità inquietanti con cui le Olimpiadi erano state assegnate e aspettavamo incuriositi quelle di Pechino. Poi l’edizione “algida” cinese è volata via lasciando un ricordo scialbo proprio nei mesi in cui iniziava il terribile can can macroeconomico internazionale.

Ora che le Olimpiadi di Londra sono in corso, i piccoli e grandi successi di ogni Paese vengono sommersi da polemiche, soprattutto incentrate sulle assurde policy di marketing e comunicazione imposte da Comitato Olimpico Internazionale e organizzatori, oltre che sui divieti di comunicazione sui social network che teoricamente avrebbero dovuto far tacere sportivi e staff. Silenzio imposto e rispettato solo parzialmente, insieme ad altre regole di comportamento.

Non è che a Pechino non ci fossero divieti, anzi: è che ai tempi sembravano limitazioni di tipo politico, mentre ora le stesse regole hanno mostrato la loro vera natura commerciale. Anche considerando la modesta immagine pubblica degli sponsor ufficiali, le aziende che non hanno contribuito al fuoco olimpico hanno avuto in queste settimane ampio seguito nelle azioni di ambush marketing. Ci sarà qualche ripercussione legale, anche in alcuni casi un po’ ridicoli.

Nel giro di qualche giorno Olimpiadi e Paralimpiadi di Londra finiranno, completando un lavorio infinito di migliaia di persone in tutto il mondo, di cui solo in minima parte sportivi. Nelle nostre memorie rimarranno le immagini di qualche medaglia, di qualche lacrima di atleti felici o disperati, ma soprattutto tante polemiche e un senso di diffusa antipatia per degli sponsor che hanno voluto mostrare troppo i muscoli, snaturando definitivamente la natura dell’evento.

Il Sanremo del terribile sospetto

Nel 2010 il Festival di Sanremo era sembrato uno specchio della realtà italiana, con gli orchestrali che strappavano gli spartiti e gli operai Fiat di Termini Imerese che reclamavano attenzione; nel 2011 il team di Morandi era ben assortito e in qualche modo la qualità della canzone di Vecchioni aveva rotto il piccolo incantesimo che nel biennio aveva portato i cantanti sardi di Maria De Filippi a vincere, relegando Emma Marrone al secondo posto.

Quest’anno sarebbe stato facile procedere sullo stesso solco, ma la voglia di cambiamento di Mazzi e Morandi ha creato più danni alla manifestazione che vantaggi agli spettatori. La terribile modella versione jena ridens ha fatto rimpiangere persino Rodriguez e Canalis dell’anno scorso, non a caso richiamate last minute e diventate protagoniste delle cronache; interventi comici imbarazzanti hanno fatto ripensare a Luca e Paolo, anch’essi ri-tirati fuori ad hoc.

L’aspettativa irrealistica nei confronti del Festival di Sanremo 2012 probabilmente non era tanto un alto profilo in termini di spettacolo, quanto che l’evento diventasse il sigillo culturale a un’Italia improvvisamente cambiata, che comunicasse a noi stessi e al mondo esterno quanto la “cura Monti” stesse cambiando in profondità il nostro modo di affrontare il mondo. Ma ora che è finito, il terribile sospetto è che noi Italiani si sia sempre gli stessi, fino in fondo.

Per usare le espressioni di Luca, si è visto piuttosto solo come sia stato sancito il «dominio televisivo, guardando schifati programmi tv considerati spazzatura e farne la critica/cronaca su Twitter», visto che il dibattito pubblico non è stato certo diverso nei bar o sui social network: tutto incentrato sulle polemichette di Celentano, sulle provocazioni di Belen, sulle papere di Morandi. Il programma televisivo sarebbe potuto andare in onda 5 anni fa, senza differenze.

Nel segno della continuità, Gianmarco Mazzi che ha visto vincere 3 volte (più un secondo posto) gli Amici di Maria De Filippi, andrà a collaborare proprio con quella trasmissione. Gli altri protagonisti del Festival si spenderanno la notorietà raggiunta, primo tra tutti Papaleo che dopo essere stato per qualche mese l’idolo dei radical chic ha voluto con questo Festival rimarcare le sue origini più “pop”. Rimarrà qualche canzone nelle radio, pur se mediocre.

Probabilmente il prossimo Festival di Sanremo, nel 2013, sarà a ridosso della chiusura della Legislatura e delle nuove Elezioni politiche. Non è difficile immaginare che i germi culturali così forti negli ultimi lustri, apparentemente sopiti nell’edizione di Sanremo dello scorso anno e pian piano tornati a galla in questo, nel frattempo avranno riconquistato tutta la loro forza. Altro che quel cattivone di Monti, meglio andare appresso ai pifferai magici della TV.

Basta con le messe tecnologiche

Quando qualche mese fa Andrea Beggi commentava la malcurata presentazione di Android Ice Cream Sandwich e Galaxy Nexus, suggeriva l’efficacia della demo di Siri di Scott Forstall come buon esempio di presentazione ben curata a priori e ben gestita durante. Che Apple abbia fatto scuola nella presentazione delle novità è un dato di fatto, ma come aveva notato Andrea in quell’occasione, non basta dichiararsi “excited” a spron battuto per conquistare la platea dal vivo e chi segue in streaming dall’altra parte del mondo.

I concorrenti di Steve Jobs infatti non ne possiedono né il carisma (e passi), né la capacità di comunicare in maniera convincente le proprie idee innovative; in alcuni casi sorge il dubbio che sia anche sfiducia nei confronti del prodotto, in cui non credono davvero. Al Consumer Electonics Show di Las Vegas, negli scorsi giorni, pare che di keynote e piccoli grandi eventi analoghi ce ne siano stati diversi, ma è difficile leggere commenti entusiastici da parte degli astanti. Nemmeno i giornalisti son sembrati molto esaltati.

La formula del keynote come messa tecnologica è logora e non è solo colpa della scomparsa di Jobs, visto che come detto sopra comunque i suoi discepoli hanno internalizzato la lezione e cercano di dare continuità al “credo” Apple, che sull’attesa entusiasta degli eventi ha costruito il suo appeal negli scorsi anni. Eventi proprietari, lontani dalla logica di eventi come il suddetto CES, che si stanno avviando sempre più verso un futuro incerto, nonostante al contrario l’attenzione di massa per l’hi-tech sia in costante crescita.

Per capire quanto sia necessario un nuovo stile di comunicazione delle novità tecnologiche basti guardare l’atteggiamento di Steve Ballmer all’inaugurazione dell’evento di Las Vegas. È vero che da una parte doveva presentare le novità Microsoft e dall’altro tutti sapevano si trattasse dell’ultima partecipazione dell’azienda all’evento, ma se è possibile è stato ancora meno convincente del solito. Eppure stavolta i prodotti (tra cui Windows 8 ) da comunicare li aveva… Son proprio lo stile e il formato che non vanno più bene.

Le ferite dell’irresponsabilità aziendale non si rimarginano mai

Non esiste probabilmente manuale universitario o saggio specialistico che, parlando di Corporate Social Responsibility, non accenni al disastro di Bhopal, alle migliaia di vittime riconosciute e non, all’imbarazzante condotta di Union Carbide. Una tragedia ambientale, umana, ma anche aziendale: un esempio di come non gestire uno stabilimento e una società, di come non riuscire nemmeno a riparare dopo il torto.

La filiale indiana di Union Carbide venne venduta a un’azienda locale, mentre la capogruppo finì nel gruppo Dow Chemical. Ancora oggi, quasi 30 anni dopo la vicenda, gli attivisti di tutto il mondo considerano responsabile l’azienda chimica statunitense di non aver dato risposta alle popolazioni coinvolte nella tragedia di Bhopal. Dow smentisce ogni responsabilità diretta, non vuol rimborsare vittime e territorio.

L’infelice acquisizione di Union Carbide è una condanna continua per Dow: ad esempio, la sola possibilità di collaborare con le Olimpiadi di Londra 2012 ha alzato un polverone internazionale. Amnesty International ha chiesto chiarimenti al Comitato Olimpico, ma anche l’India ha sollevato proteste per questo affare: non c’è stato nulla da fare, la risposta ha escluso la possibilità di rompere il rapporto con Dow.

Già BP ha investito molto sulle Olimpiadi per cercare di rifarsi una verginità dopo il disastro ambientale nel Golfo del Messico e questo ha creato molti malumori tra i cittadini britannici; ora l’appoggio incondizionato del Comitato Olimpico Internazionale a Dow in qualche modo rovina ulteriormente la fiducia nei confronti delle Olimpiadi estive, il cui “spirito” era già stato messo a dura prova a Pechino 2008.

Si dirà che le Olimpiadi di Londra erano già iniziate male prima ancora dell’assegnazione, nel 2004; ora rischiano di diventare il contesto in cui cercare di riciclare l’immagine di aziende dai fatturati miliardari ma dall’immagine pessima, distrutta da comportamenti irresponsabili magari lontani nel tempo, ma ancora vividi nella memoria di tutti noi, di tutti coloro che nelle Olimpiadi “credevano” ancora.

L’insegnamento per chi si occupa di strategia aziendale e di comunicazione è che non basta investire budget importanti per provare a salvarsi l’anima; i disastri bisogna evitarli a priori e piuttosto, una volta che ci si trova a confrontarsi con le vittime, meglio assumere un profilo di alto livello. Altro che scappare di fronte alle responsabilità, sanare le ferite del passato è la migliore delle promozioni, la più seria.

La settimana delle morti apparenti e delle morti vere

Nonciclopedia è una sorta di enciclopedia alternativa che, ironizzando sull'approccio serioso di Wikipedia, ha nel tempo pubblicato una serie consistente di articoli surreali su fatti, persone, località. Negli scorsi giorni ha commesso una sorta di harakiri per colpa delle diffide legali ricevute dallo staff di Vasco Rossi. Gli utenti della Rete hanno avviato un'azione consistente di mobilizzazione in suo favore, nonostante probabilmente molti dei sottoscrittori degli appelli per la sua salvezza (125.000 iscrizioni su Facebook in 8 ore, ad esempio, in uno dei tanti gruppi di supporto istantanei) non conoscessero nemmeno la sua esistenza e i suoi contenuti, nel frattempo oscurati. Negli ultimi giorni, grazie a tutta questa pubblicità e a una sorta di atto di clemenza del cantante emiliano (o del suo staff), il wiki è tornato online.

Per una sorta di bizzarra coincidenza, poche ore dopo il tentato suicidio di Nonciclopedia, Wikipedia Italia ha fatto altrettanto. Imitando la sua sorellina ironica, l'enciclopedia virtuale più famosa nel nostro Paese si è imbavagliata ipotizzando una possibile chiusura definitiva in caso di approvazione della "legge bavaglio" che avrebbe comportato l'obbligo di rettifica in alcune situazioni di diffamazione, in alcuni casi simili a quelle di Vasco Rossi vs. Nonciclopedia. Mentre alcuni giornalisti esultavano per la morte di Wikipedia Italia, i blogger non aspettavano altro per sfogare tutta la propria rabbia verso l'ipotesi normativa, che avrebbe in qualche modo costretto anche loro a prendere provvedimenti drastici. La mossa "forte" di Wikipedia Italia sembra essere servita, ma il rischio di un nuovo suicidio è ancora nell'aria, visto i tempi biblici parlamentari.

Negli stessi giorni, molti avranno scoperto del silenzio di Wikipedia Italia cercando informazioni su Steve Jobs. La scomparsa del fondatore della Apple purtroppo stavolta era vera, dopo tanti falsi allarmi e in una settimana in cui, appunto, gli animi degli Italiani in Rete erano già esacerbati da questi movimenti di mobilitazione per la difesa della libertà di parola. Jobs ci ha lasciato appena un paio di giorni dopo un deludente evento Apple e quindi in un momento in cui sulla Società già volteggiavano gli avvoltoi di chi sosteneva che senza il suo spirito guida sarebbero presto iniziati problemi di credibilità sul mercato. Tanto per cambiare, blogger e affini di tutta Italia e in questo caso di tutto il mondo si sono stagliati in difesa della mela morsicata e hanno pianto amare lacrime per la scomparsa del presidente. Ci aspetteranno citazioni a non finire, per mesi.

Bisogna pur dire che gli animi più sensibili avevano nei giorni precedenti già sofferto, e probabilmente ancora di più, per l'addio a due figure a loro modo peculiari della blogosfera italiana. Per una macabra coincidenza, a distanza di poche ore ci hanno lasciato Madisonav e Anna staccato Lisa, due giovani blogger stroncate da brutti mali. Le parole degli amici, di chi le aveva lette su Internet e ancor di più di chi le aveva conosciute dal vivo, per giorni si sono accavallate lasciando solchi profondi nelle nostre anime. Con tutto il rispetto per Nonciclopedia, Wikipedia e Steve Jobs, di questa tristissima settimana ricorderemo soprattutto loro. Ci mancherete.

Twitterremoto

Massima solidarietà e partecipazione per il dramma giapponese. Un terremoto così forte non solo fa male a chi è colpito direttamente dalla morte dei familiari, ma anche a chi ha vissuto quelle scosse sulla propria pelle e ne avrà un ricordo indelebile, uno di quelli che cambiano la vita e il modo stesso di intenderla. I media a più riprese hanno sottolineato come, mentre le linee telefoniche continuavano a crollare, gli accessi a Internet rimanevano ancora attivi. Non è molto chiara la modalità tecnica di questa sopravvivenza, ma è stata sicuramente l’occasione per tirare nuovamente in mezzo il ruolo di Twitter come megafono.

Come avvenuto negli scorsi anni con la scomparsa di personaggi celebri, Twitter ha fatto da risonanza dell’accaduto nelle prime ore e poi da punto di sintesi della solidarietà mondiale. Quello che è mancato, oggi come allora, è stata però l’informazione “di prima mano”, la fonte magari non famosa, ma utile a capire. Il meccanismo perverso della piattaforma, peraltro, fa sì che sia impossibile che una notizia salga di livello in tempi brevi; magari un giornalista ha 1.000 fans tra i suoi iscritti, ma a sua volta non è iscritto a nessuno di essi, quindi qualora pubblicassero qualcosa non se ne accorgerebbe. Figurarsi gli amici degli amici.

Il Giappone è uno dei Paesi a più alta concentrazione di Internet-users e in questo caso le fonti dirette, sul territorio, all’apparenza avevano molto da dire. Ma cosa, esattamente? «Oh mio Dio, un forte terremoto» o «Gulp, la mia scrivania è crollata sotto i miei occhi» sono tweet emozionanti, ma aggiungono poco. Se qualcuno avesse avuto qualcosa importante da dire (tipo «Ho sentito dei superstiti sotto le macerie del palazzo XYZ, andate a scavare lì») difficilmente l’avrebbe scritto su Twitter; chi ha voluto rassicurare i propri parenti e amici è ricorso a Facebook, instaurando mini-conversazioni coi dettagli personali per rassicurarli.

La discussione via Twitter si è ripiegata su sé stessa. Come al solito è diventato il giochino in cui gli Occidentali, davanti al PC, scambiavano commenti sulle immagini proposte dai media facendo entrare il terremoto tra i trend topics prima di passare il giorno dopo al Nord Africa o a qualche Camp o whatever. La sensazione come al solito è quella di essere di fronte a un mezzo potente, che è uscito dalla logica dell’SMS erga omnes per entrare in quella della chat pubblica universale; un mezzo troppo generalista per competere con applicazioni specifiche, troppo scarno per diventare mass market. Che farà da grande l’uccellino blu?

Che aria tira nei programmi di loyalty

Anche quest’anno il tradizionale Convegno sul Micromarketing dell’Università di Parma ha regalato spunti interessanti. Dietro la cattedra, i migliori ricercatori italiani su loyalty e dintorni e qualche esempio di azienda virtuosa; tra i banchi, diverse centinaia di addetti marketing, consulenti vari e professionisti della grande distribuzione. Il miglior meeting sul tema disponibile in Italia, peraltro gratuito.

Nei convegni markettari anche l'acqua è sposorizzata :-)

Ascoltando interventi pubblici e spunti dei partecipanti, è evidente come nell’ultimo anno il panorama italiano sia profondamente mutato rispetto a quello presentato un anno fa. Il movimento è stato spinto soprattutto dai cambiamenti in ambito Grande Distribuzione Organizzata, ma anche dall’aumento esponenziale nel nostro Paese dell’attenzione dei markettari verso i social network.

Si è iniziato a discutere anche del futuro, in qualche modo simboleggiato dalla tecnologia mobile, che tutto sembra ammantare: il cellulare come strumento di raccordo tra consumatori e aziende, ma soprattutto tra clienti della grande distribuzione e catene, che piano piano stanno capendo opportunità e minacce del mezzo, anche se le sperimentazioni non sono sempre così convincenti.

Bisogna anche dire che i grandi numeri stanno ancora sulle iniziative tradizionali, raccolte punti in primis; la cosa notevole è che le ricerche presentate dimostrano un interesse modesto da parte dei sottoscrittori che, nemmeno a dirlo, sembrano attratti soprattutto dalle promozioni di prezzo più che dagli altri fattori. In un certo senso, non c’è loyalty che tenga davvero in tempi di crisi.

Nei prossimi giorni gli atti del Convegno verranno pubblicati sul portale che raccoglie le iniziative dell’Osservatorio della Facoltà di Economia dell’Università di Parma e dei suoi partner. La registrazione è gratuita, la visione dei documenti è consigliata anche a chi non c’era. Per tutti i lettori di .commEurope: ci vediamo a Parma il prossimo anno, non si può mancare.

Parma, colonia Mediaset

È una città deliziosa. Parma rappresenta a tutti gli effetti una punta di diamante in termini di vivibilità e qualità della vita. Più animata della seriosa Reggio Emilia e più accogliente della fredda Piacenza, è una città piacevole da visitare, da vivere, da gustare. Un vero e proprio regno dell’enogastronomia e della cultura, che attrae quotidianamente turisti da tutto il Mondo e costituisce un esempio per molte città italiane.

Parma è da sempre città favorevole alla comunicazione: il quotidiano locale ha quasi 300 anni, la radio locale è stata la prima in Italia, nata a metà degli anni Settanta, quasi in contemporanea con la prima televisione locale. Così, pochi si sono stupiti della crescente attenzione che Mediaset ha dedicato a Parma, definita dai giornalisti “città-tubo catodico” per i set che si sono succeduti negli ultimi mesi per le strade.

Il culmine di questo rapporto tra il Gruppo editoriale e la Città lo si sta vedendo in questi giorni: Mediaset è media partner del Festival Verdi 2010, la più importante manifestazione culturale (e turistica) annuale: Fedele Confalonieri ha avuto grande spazio in fase di presentazione dell’evento e il logo Mediaset rifulge su tutti i cartelloni. Ma è in televisione che questa partnership mostra tutta la sua potenza.

Da parecchie settimane, i mini-spot del Festival Verdi accompagnano l’inizio di diversi programmi sulle reti Mediaset. In questi giorni, i collegamenti da Parma si moltiplicano, anche in trasmissioni nazional-popolari come quelli del pomeriggio. Per la prima volta, il Festival Verdi sembra un evento alla portata di tutti, “Parma e le terre di Verdi” diventano un punto di interesse anche per i non appassionati.

Tutto bello e positivo, perché la “democratizzazione” della musica alta attraverso la TV è importante, specie in previsione dell’imminente bicentenario dalla nascita del grande compositore e in considerazione della pessima presenza su Web del Festival Verdi. Tutto bello e positivo, anche se nei locali della città emiliana i cittadini hanno idee contrastanti sul perché Mediaset sia così attenta a “presidiare” la città.

In quei locali, i più maliziosi notano come Parma sia da anni nelle mani di un Centrodestra bizzarro, succube di Elvio Ubaldi, non esattamente un fedelissimo della coalizione oggi al Governo. Anche in considerazione dell’avanzata massiccia della Lega Nord, risulta importante non perdere un cuneo così importante nella (una volta) rossa Emilia Romagna, anzi potenziarlo e assicurarsi che resista nel tempo.

Sono voci senza fondamento, magari, basate sul solito pregiudizio che Mediaset e Forza Italia (o quello che è diventata) siano gestite in maniera coerente e sinergica. Magari è solo in’infatuazione dei Manager televisivi nei confronti della bella città. L’importante è che Parma ottenga i benefici di questa esposizione ancora a lungo. D’altra parte i Parmigiani sono furbi, non si lasceranno stordire da un po’ di spot.