Addio FriendFeed

Dopo anni di sussurri e paure, il passo è stato formalizzato: dal 9 aprile 2015 FriendFeed chiude le porte. Anzi, Facebook chiude le porte di FriendFeed, visto che ormai da oltre un lustro il social network era un micro-servizio superstite da qualche migliaio di utenti attivi nella galassia di prodotti Facebook che ormai ragionano (almeno) in termini di centinaia di milioni di utenti.

Eppure a livello tecnico FriendFeed è stato il precursore di molte innovazioni poi apparse su Facebook (non a caso ai tempi dell’acquisizione il fondatore del primo divenne il CTO del secondo), costituendo dal punto di vista dell’esperienza utente un contenitore incomparabile di contenuti, senza distrazioni o features in eccesso, interamente utente-centrico nella sostanza.

In Italia poi aveva preso una vita tutta sua: dopo l’infatuazione iniziale da parte delle blogstar, che ne avevano fatto il loro punto di incontro prediletto, era poi diventato un crogiolo di micro-comunità e mini-celebrities. Un ambiente divertente, abbastanza unico nel suo genere, in cui profili personali, “stanze” super-specialistiche e post esterni si integravano alla perfezione.

Negli scorsi giorni c’è stata tanta tristezza da parte di chi ha vissuto la piattaforma in diversi momenti del suo ciclo di vita. Chi sta rimanendo fino all’ultimo, come avviene in ogni comunità virtuale morente, sono coloro che “ci tenevano” di più, quelli che sanno che quella piccola grande magia scomparirà per sempre. In attesa di un altro spazio, che sarà comunque diversissimo.

Al telefono è più facile

Quando la scorsa estate Gartner aveva sostenuto che non rispondere alle richieste dei Clienti sui social media sarebbe diventato nel medio periodo rischioso quanto e più del non rispondere alle chiamate di assistenza, molti avevano ironizzato sull’ovvietà; poi pochi avevano preso provvedimenti.

Son passati mesi e recentemente si sono tenuti gli ennesimi convegni in giro per l’Europa in cui il Social CRM è stato presentato come una necessità più che come un’opportunità: di case histories davvero rilevanti se ne vedono poche, in termini di player e di utilizzo attivo da parte di utenti e aziende.

I vincoli sono tanti: qualche azienda ad esempio lamenta che è difficile trattare una richiesta rispettando le normative nazionali sulla privacy; ancor di più trattare un lead. L’atteggiamento di molte è orientato nel rispondere alle domande, ma evitare accuratamente di entrare in polemiche e flame.

Manca il coraggio, l’arroganza positiva che soprattutto le società più grandi dovrebbero avere. Aveva colpito molto la dichiarazione di guerra di Israele via Twitter; le società europee non riuscirebbero nemmeno ad affermare con sicurezza le proprie posizioni su argomenti ben più terra terra.

Nella maggior parte dei casi il problema è lo skill shortage, l’aver affidato il presidio dei touchpoint a stagisti e ragazzetti del Contact Center che hanno imparato a fare inbound e magari sono stati costretti con la frusta economica a qualche campagna di outbound; tutt’altra cosa rispetto a esporsi in pubblico.

Facebook si è afflosciato

Basta scorrere i titoli di questi articoli

per capire che aria tira in questi mesi nei confronti del più grande social network. I testi sono stati scritti da professionisti di settori diversi, si riferiscono a varie iniziative e partono da notizie differenti, eppure sono tendenzialmente accomunati da una certa sfiducia nei confronti di Facebook.

Nonostante l’enorme parco utenti, ormai abbondantemente oltre il miliardo, l’azienda blu viene tratteggiata come incapace di produrre innovazione significativa e creare buona marginalità. Il che, essendo una società quotata al Nasdaq, è fonte di angoscia trimestrale per gli azionisti.

Facebook continua a essere percepita come piattaforma su cui perdere tempo; prima il passatempo preferito degli utilizzatori sembravano i giochi di Zynga, ora pare attraggano di più le funzionalità di comunicazione testuale. Dopo anni e anni sembra che tutto si riduca ancora alla stickiness.

Onestamente è difficile in questo momento pianificare campagne su Facebook per prodotti e servizi “seri”: la maggior parte delle inserzioni è di modesta qualità e di dubbia provenienza. È un peccato, soprattutto per il proliferare di agenzie che affrontano lo strumento con poca professionalità.

Chissà in che direzione andrà il Web nei prossimi anni, chissà che fine farà Facebook. Qualcuno ipotizza che diventerà una sorta di servizio pubblico, ma è evidente che questo passaggio deriverebbe da una sua crisi profonda e da una revisione della governance, quasi una nazionalizzazione.

Dieci fantasmi della Rete

Piccola lista di piattaforme morte (ufficialmente o meno) che magari vi faranno sospirare e dire “Ah, io c’ero” o “Che fine ingloriosa”…

  1. Geocities

    Gli indirizzi chilometrici degli orripilanti spazi Web ospitati gratuitamente da Geocities derivavano dall’idea che il Web fosse una città in cui passeggiare allegramente di boulevard in boulevard. Venne comprata da Yahoo! e poi massacrata fino alla scomparsa. Memorabile il tributo di XKCD.

  2. Ezboard

    Nel periodo in cui Rete sociale significava forum, ezboard.com rappresentava la piattaforma remota più interessante, pur non brillando per flessibilità. Furono tra i primi a tentare la strada dell’iscrizione a pagamento, fino a una drammatica e semi-totale perdita dei dati. I resti oggi si chiamano Yuku.

  3. Freeweb Aspide

    Nei primi anni di presenza della Rete in Italia, Freeweb era un servizio dell’ISP fiorentino Aspide e rappresentava una risposta più che valida a Geocities o Tripod. Il servizio confluì in Dada quasi in contemporanea al suo omonimo Freemail (nomen omen). Esiste una pagina fan su Facebook.

  4. Jaiku

    Twitter era una nanerottola una manciata di anni fa, non così dissimile da Jaiku. Quest’ultima sembrò potesse diventare l’alternativa (nord)europea al più noto servizio di microblogging. Quando venne comprata da Google, sembrava potesse decollare, invece morì. Rimane una laconica paginetta di fans.

  5. Second Life

    Non lasciamoci illudere dal fatto che la piattaforma 3D più chiacchierata degli anni 2000 sia ancora formalmente aperta. Se nel 2007 tutti avevamo tanti punti interrogativi sulla testa, oggi possiamo considerarla un’esperienza finita. Da notare che al picco arrivò ad avere meno di 100.000 utenti contemporanei.

  6. MSN Spaces

    Degno erede di Geocities in termini di look’n’feel terribili, era la piattaforma che ospitava i blog dei ragazzini di tutto il mondo. Sopravvisse a qualche rebranding/tentativo di rilancio di Microsoft, superando abbondantemente i 100 milioni di spazi. Fu proposto agli utenti di switchare su WordPress.com.

  7. Orkut

    Anche i sassi sanno che Orkut ancora esiste (formalmente), che è un marchio di Google e che è uno dei principali social network in Brasile. Quello che però tutti ci siamo dimenticati è che nel 2004 Orkut esisteva già, molti anni prima dell’affermazione mondiale di Facebook. Un’altra chance persa per Google.

  8. LinkExchange

    Quando i sistemi di Web advertising non erano molto evoluti e i budget del tutto risibili, era frequente ricorrere ai sistemi di scambio banner per dare un po’ di visibilità al proprio sito. Venne comprata da Microsoft all’apice della notorietà, poi inglobata nella defunta meteora Office Live Small Business.

  9. ICQ

    Per anni fu “IL” sistema di instant messaging, semi-monopolista al di fuori degli Stati Uniti, dove competeva col client di America Online, AIM. Proprio AOL comprò la piattaforma dall’israeliana Mirabilis, negli anni in cui lo standard mondiale stava diventando MSN Messenger. Gli account sono ancora attivi.

  10. FriendFeed

    Senza voler alzare flame war, visto che in Italia e in Turchia la comunità è ancora abbastanza attiva, FriendFeed è purtroppo una piattaforma morta. Lo sviluppo si è fermato all’agosto 2009, quando la società venne inglobata da Facebook, che ne adottò le principali tecnologie. Un vero peccato.

Vip italiani alle prese con Twitter

Non c’è a memoria d’uomo un fenomeno tecnologico che abbia avuto così tanto successo “pubblico” tra i personaggi noti di tutto il mondo come Twitter. Non certo MySpace prima o Facebook poi, spesso appaltati a terzi; probabilmente nemmeno la posta elettronica, che è rimasto uno strumento a utilizzo privato e non certo strombazzato.

Il vip che usa Twitter invece tiene a far sapere a destra e a manca che “c’è”, che è parte della moda del momento e che in qualche modo ha trovato un modo di parlare con i fans. Dialoghi peraltro piuttosto monchi; la maggior parte si riduce a richieste tipo “Mi retwitti?” da parte dei secondi e a un clic sull’apposito bottone da parte dei primi.

Probabilmente ci saranno utenti di Twitter che trovano piacevole leggere i dettagli privati della vita quotidiana dei personaggi più noti, senza aspettare che escano, magari in luce impropria, sulle riviste scandalistiche; ma la sensazione è che la maggior parte sia lì per poter dire agli amici “il mio mito è a distanza di @chiocciola”.

La stragrande maggioranza delle interazioni è rumore che inquina i contenuti, magari (sulla carta?) di valore, che il vip vorrebbe trasmettere ai suoi seguaci. Probabilmente la facilità di poter twittare dal telefono fa sì che i personaggi noti vivano Twitter come una sorta di SMS broadcast, un canale gratuito per gridare al mondo il proprio verbo.

I twittatori più scafati se ne approfittano. Qualcuno si sta costruendo una piccola notorietà tra i peers come “brutalizzatore” dei vip e non è difficile credere che molti ne seguiranno l’esempio. Come sempre, non c’è niente di meglio di fare i parassiti delle persone più note per sperare un giorno di poter riflettere di luce propria.

Di usi “interessanti” se ne vedono pochi, quasi nessuno. È un mondo in via di costruzione e probabilmente quando la moda sarà passata molti personaggi famosi cambieranno aria. La grande curiosità è di vedere cosa rimarrà di questo enorme innamoramento collettivo, quali saranno le modalità di comunicazione che adotteranno i superstiti.

Il Giro della discordia

Ivan Basso e Sasha Modolo con Michelino DavicoDa quando Alitalia è approdata su Facebook con un social team professionale, è piacevole dare un’occhiata alla pagina ufficiale della compagnia aerea. I quasi 500.000 fans interagiscono in maniera piacevole con gli interlocutori, anche nei casi più difficili. Finalmente un buon esempio di customer care via social network, con risposta a problemi operativi intervallati a curiosità e proposte da parte dei Clienti.

Negli scorsi giorni, tuttavia, la pagina si è improvvisamente scaldata: l’avvio del Giro della Padania 2011 ha indotto diversi utenti a mostrare un vero e proprio disgusto nei confronti della sponsorizzazione della manifestazione da parte di quella che ritengono (pur se non è più vero in senso stretto) la compagnia di bandiera italiana. C’è chi ipotizza sia un “contentino” per l’abbandono di Malpensa, chi minaccia boicottaggio.

Il team Alitalia su Facebook si guarda bene dal rispondere alle “richieste di chiarimento” degli utenti, che quindi finiscono a darsi ragione a vicenda o al massimo proporre qualche flebile spiegazione sulle scelte promozionali della Compagnia. Peraltro sul sito Alitalia non si fa menzione del Giro della Padania né sull’area commerciale né su quella istituzionale: sembrerebbe davvero una sponsorizzazione “subita” più che “scelta”.

L’arrivo della Corsa in Emilia Romagna ha destato parecchi malumori, soprattutto nei confronti di Coopsette e Unieco, grandi operatori un tempo ritenuti “cooperative rosse”. Il disprezzo verso la manifestazione è infatti molto forte a Sinistra e in particolare Rifondazione Comunista aveva duramente criticato il Giro sin dalle tappe iniziali, scendendo in piazza per bloccare fisicamente i corridori.

La Federazione Ciclistica Italiana ha spinto molto negli scorsi mesi su questa manifestazione, che con tutta evidenza nasce “ricca” sia in termini di budget che di attenzione da parte del grande pubblico. Attenzione però non sempre di carattere positivo: a volte si ha la sensazione che le sponsorizzazioni siano controproducenti per chi le sostiene e questo sembra proprio uno di quei casi.

Viva le simmetrie di Facebook

Sembrerebbe che Facebook sia pronta a lanciare una nuova “modalità relazionale” tra i propri utenti. Accanto alla classica “amicizia” su cui ruotano attualmente tutte le relazioni tra i Privati, dovrebbe comparire la possibilità di “seguire” gli aggiornamenti di un altro utente senza ulteriori obblighi di vincoli reciproci. Qualcosa di simile a ciò che avviene oggi con le pagine di organizzazioni e celebrità.

Diventare “fan” di qualcun altro, nel delicato mondo degli equilibri di Facebook, rischia di diventare quasi stalking digitale: non tutti gradiranno avere degli occhi puntati sopra il proprio profilo, soprattutto se sono quelli di una persona cui si è evitato di dare l’amicizia. Sicuramente ci saranno meccanismi di disclosure su più livelli dei contenuti, ma questo complicherà ulteriormente i settaggi della privacy.

Si potrebbe dire che il “follow” unidirezionale è già diffuso presso altre piattaforme, Twitter in primis. Il problema è che questi ambienti somigliano oggi sempre più a servizi di broadcasting delle proprie idee più che veri e propri social network. La cartina di tornasole è proprio Facebook, dove tra le storiche “pagine fan” e i profili personali le dinamiche di interazione sono diversissime e poco omologabili.

Un social network, se vuole davvero rappresentare i legami di amicizia tra i propri membri, deve necessariamente essere simmetrico; le piattaforme nate asimmetriche (e magari oggi moribonde come FriendFeed) rischiano di diventare santuari dell’ego boosting. Il continuo misurarsi a vicenda il rapporto tra followers e followed sulla lunga diventa stancante e disincentiva il dialogo sereno tra pari.

Si spera quindi che l’iniziativa di Facebook faccia la fine di Places, Deals e degli altri mille tentativi abortiti negli ultimi anni di uscire dall’approccio storico e provare a cambiare pelle. Si possono capire quelli di monetizzare il successo globale, meno quelli che provano a indebolire una struttura relazionale magari rigida, ma che ha convinto 700 milioni di utenti grazie alla semplicità dei meccanismi relazionali.

Non è una buona idea sparare all’uccellino

Che Twitter sia intrinsecamente debole è un dato di fatto da ormai diversi anni. Magari è stato un po’ stabilizzato il sito dal punto di vista tecnico, ma l’assenza di un business model sensato continua a tenere la piattaforma, pur di successo, sull’orlo del precipizio. Anzi, più aumenta la gente che le balla intorno, più l’orlo si avvicina. Di nuovo in questi giorni un paio di episodi inducono a riflettere sulle potenzialità complesse dell’informazione via Twitter, che come tutti i luoghi virtuali di successo è ormai terreno di scontro ideologico e commerciale.

Guardiamo al caso italiano: ieri un gruppo di utenti ha iniziato a lamentarsi della preponderanza dell’hashtag #saldi tra gli argomenti di discussione più attivi, ritenendolo futile in un momento di scontri violenti in Val di Susa. Così si è sperimentata una nuova forma di guerrilla: il tag #saldi è stato adottato al posto di #notav, per veicolare sulla campagna contro l’Alta velocità Torino-Lione chi fosse curioso di leggere resoconti di scorribande nei negozi. Comprensibile il tentativo di sottolineare il valore etico dell’idea; terribile pensare che possa diventare pratica comune.

Il caso americano è invece di oggi, Indipendence Day negli Stati Uniti. La manipolazione dei flussi informativi su Twitter, in questo caso, è stata ancora più diretta: un sedicente hacker ha preso possesso del flusso di Fox News e ha battuto notizia della morte di Barack Obama in un attentato; ovviamente i tweet hanno iniziato a girare vorticosamente, anche in considerazione dei 33.000 iscritti al profilo della TV. Uno scherzo crudele nei confronti di una Nazione che celebra con dolore dieci anni dall’11 settembre: dieci anni di instabilità, guerre e terrore quotidiano.

Sono due storie come tante altre sentite negli scorsi mesi, utili ancora una volta a sollevare il velo sul peso che viene dato all’informazione via Twitter e sui rischi connessi a una gestione allegra delle notizie sul social network e inevitabilmente sugli altri siti che lo riprendono, informativi e non. Con la crescita degli utenti e la concentrazione degli iscritti sui profili di celebrities e fonti informative tradizionali, Twitter sta mostrando la sua incapacità di funzionare da cassa di risonanza sull’informazione dal basso, permettendo al contrario la nascita di fenomeni perversi.

Lo spam che cresce a dismisura, i trucchetti per acquisire/attribuire notorietà, le operazioni come quelle sopracitate contribuiscono ad affossare la credibilità e l’affidabilità di un mezzo che al contrario potrebbe essere utile, molto comodo da utilizzare e discreto nella sua presenza pubblica. Qualche analista dice che l’unica ancora di salvezza economica per Twitter sia il confluire in un agglomerato Web di maggiori dimensioni; a questo punto sorge il dubbio che la “salvezza” in questione comporti anche la tutela di un mezzo informativo che è ormai patrimonio comune.

Twitterremoto

Massima solidarietà e partecipazione per il dramma giapponese. Un terremoto così forte non solo fa male a chi è colpito direttamente dalla morte dei familiari, ma anche a chi ha vissuto quelle scosse sulla propria pelle e ne avrà un ricordo indelebile, uno di quelli che cambiano la vita e il modo stesso di intenderla. I media a più riprese hanno sottolineato come, mentre le linee telefoniche continuavano a crollare, gli accessi a Internet rimanevano ancora attivi. Non è molto chiara la modalità tecnica di questa sopravvivenza, ma è stata sicuramente l’occasione per tirare nuovamente in mezzo il ruolo di Twitter come megafono.

Come avvenuto negli scorsi anni con la scomparsa di personaggi celebri, Twitter ha fatto da risonanza dell’accaduto nelle prime ore e poi da punto di sintesi della solidarietà mondiale. Quello che è mancato, oggi come allora, è stata però l’informazione “di prima mano”, la fonte magari non famosa, ma utile a capire. Il meccanismo perverso della piattaforma, peraltro, fa sì che sia impossibile che una notizia salga di livello in tempi brevi; magari un giornalista ha 1.000 fans tra i suoi iscritti, ma a sua volta non è iscritto a nessuno di essi, quindi qualora pubblicassero qualcosa non se ne accorgerebbe. Figurarsi gli amici degli amici.

Il Giappone è uno dei Paesi a più alta concentrazione di Internet-users e in questo caso le fonti dirette, sul territorio, all’apparenza avevano molto da dire. Ma cosa, esattamente? «Oh mio Dio, un forte terremoto» o «Gulp, la mia scrivania è crollata sotto i miei occhi» sono tweet emozionanti, ma aggiungono poco. Se qualcuno avesse avuto qualcosa importante da dire (tipo «Ho sentito dei superstiti sotto le macerie del palazzo XYZ, andate a scavare lì») difficilmente l’avrebbe scritto su Twitter; chi ha voluto rassicurare i propri parenti e amici è ricorso a Facebook, instaurando mini-conversazioni coi dettagli personali per rassicurarli.

La discussione via Twitter si è ripiegata su sé stessa. Come al solito è diventato il giochino in cui gli Occidentali, davanti al PC, scambiavano commenti sulle immagini proposte dai media facendo entrare il terremoto tra i trend topics prima di passare il giorno dopo al Nord Africa o a qualche Camp o whatever. La sensazione come al solito è quella di essere di fronte a un mezzo potente, che è uscito dalla logica dell’SMS erga omnes per entrare in quella della chat pubblica universale; un mezzo troppo generalista per competere con applicazioni specifiche, troppo scarno per diventare mass market. Che farà da grande l’uccellino blu?

La strada di Diaspora? Lunga lunga

La paura che la fine di FriendFeed sia vicina è ormai stabile quanto l’etichetta “Beta” sui siti che ancora si fanno chiamare Web2.0 nonostante l’odio generalizzato verso questa espressione. Un qualcosa di irrazionale, che però continua a mietere proseliti. Anche quelli che fino a qualche settimana fa si mostravano “razionali” nei confronti della crisi della piattaforma, dopo l’ultimo week-end nefasto hanno iniziato a guardarsi in giro.

Così, nelle stesse ore in cui per la prima volta Facebook citava FriendFeed sulle sue pagine come “laboratorio” in cui sperimentare il nuovo sign-on tramite il social network blu, molti di noi sono caduti nella “trappola” di Diaspora. Che la label Beta ancora se la sogna, visto che fa chiamare Alpha una versione che un tempo per decenza non si sarebbe fatta vedere a nessuno. Tantomeno al grande pubblico, per quanto “su invito”.

Vista la viralità degli inviti (ne vengono assegnati 5 a ogni nuovo sottoscrittore), peraltro, è bastato un week-end perché centinaia (migliaia?) di utenti stanchi di FriendFeed andassero a cercar (per poche ore) pace altrove. Il risultato è che oggi i nostri profili stanno lì, tendenzialmente vuoti, incapaci di accogliere input da social network esterni (come avviene per le altre piattaforme) e timidamente linkati ai profili su Facebook e Twitter.

Diaspora ha tanta strada da fare, ma come si ricorderà aveva ottenuto discreta visibilità sui media già ai tempi dell’annuncio, grazie al mini-investimento di Mark Zuckerberg che, più che essere masochista e contribuire al vero nemico di Facebook, ha saggiamente investito su un laboratorio che, necessariamente, dovrà portare innovazione per distinguersi sul mercato. Innovazione che, onestamente, al momento manca.

L’unico punto distintivo, infatti, è la (remota?) possibilità di installare Diaspora su propri server; per il resto, a parte qualche bizzarra uscita di marketing, siamo al solito scrivi-il-tuo-nome, metti-in-lista-i-tuoi-amici, carica-la-fotina-del-profilo. Aspettiamo di vedere i risultati dell’evoluzione, anche se si sperava in qualcosa di più sconvolgente. O almeno in un clone di FriendFeed, che nella sua semplicità ci piace ancora tanto.