Wind, i social network e la coerenza di Gruppo

Dopo quasi un mese di attività, il bilancio dell’attività del team di Wind Italia sui social network è moderatamente positivo. “Moderatamente” perché, come tutte le grandi aziende che si confrontano con la Rete, manca la sicurezza di sé maturata su altri canali: sembrano sempre elefanti nelle cristallerie; wannabe-delicati, ma elefanti. “Positivo” perché accettare la sfida, magari in partnership con un attore di peso come Ogilvy, vuol dire mostrare di voler gestire il rapporto con Prospect e Clienti in maniera innovativa, o quantomeno trasparente.

Chi ha iniziato questo esercizio sui social network ha ottenuto risultati altalenanti, ma spesso coerenti con l’immagine complessiva dell’azienda. Restando nel campo delle TelCo, fa un po’ sorridere (di tenerezza) lo sbattimento del team di Nòverca per far conoscere e apprezzare un brand del tutto sconosciuto al mondo pur attento a queste tematiche di chi frequenta i social network più evoluti; al contrario, è evidente che lo spirito e le modalità di interazione di 3 Italia sono pienamente coerenti con quelli propri del mezzo (e quindi efficaci).

C’è però una cosa che stona nello sbarco del Gruppo Wind sui social network ed è venuta fuori dopo pochi giorni dal debutto, durante una discussione su FriendFeed. Dopo aver risposto stoicamente alle stroncature dell’orrendo spot con Panariello (quello in cui lui dice qualcosa tipo “C’era proprio bisogno di buttar via tanti soldi per dei testimonial?”), il team si arena sulle lamentele feroci di un Cliente Infostrada: emerge che si sbatteranno per risolvere i problemi, ma che non sarebbe loro compito. Perché loro sono Wind, non Infostrada. Eh?

I cartelloni sulla convergenza fisso-mobile del Gruppo WindDopo aver passato un’estate a esaltare la solidità del Gruppo Wind con una campagna istituzionale finalmente adeguata agli standard di un’azienda con 20 milioni di Clienti, ma soprattutto in un momento in cui diverse città italiane sono piene di manifesti che esaltano la convergenza fisso-mobile come non avveniva dai tempi del lancio di Wind in Italia, quando finalmente il Gruppo può parlare direttamente con Clienti e Prospect, ci tiene a sottolineare che Wind e Infostrada sono due realtà diverse?

Il motivo è evidente: il budget per l’iniziativa sarà gestito da chi segue le attività Mobile del Gruppo e quindi anche la relativa organizzazione sarà strettamente legata a tale business unit. È un po’ come se il Gruppo Barilla apparisse con un proprio profilo istituzionale sui social network e poi si rifiutasse di rispondere alle domande sul Mulino Bianco. Come dite? Lo fanno tutti i grandi Gruppi? Può essere, ma non è una scusante.

La comunicazione aziendale non deve necessariamente seguire i ghirigori dell’organizzazione; anzi, deve riuscire a portarli a unità. Si possono fare scelte di relativa indipendenza tra marchi (restando nel paragone, può aver senso tenere distinti gli stili di comunicazione di Barilla e Voiello), ma se un’azienda sceglie la strada della convergenza e ne fa una missione aziendale, poi deve essere coerente in tutte le iniziative di marketing.

Nulla da biasimare a questa iniziativa di Wind in particolare, dunque, visto che la società da sempre ha sofferto di questa doppia anima nella comunicazione (e il cartellone in cui Fiorello sta ben lontano da Panariello e Incontrada sembra dimostrarlo, nonostante lo slogan sovrapposto): quello dei muri invisibili (al Cliente) è peraltro un problema che attanaglia la maggior parte delle nostre aziende e spesso nemmeno avere un azionista di riferimento straniero aiuta.

Come è avvenuto per il Gruppo Wind, sarà bello vedere altre aziende, soprattutto le più grandi, confrontarsi con i social network, consce che ciò che è cambiato davvero, probabilmente, sono (siamo) i Clienti: molto più attenti di un tempo a questi dettagli, molto più desiderosi di parlare direttamente con le aziende, senza i penosi contact center a mediare delle relazioni i cui valori in gioco sono sempre maggiori. E non solo quelli economici.

Google Buzz, il macigno col punto interrogativo sopra

Da un po’ di tempo, la maggior parte degli articoli sulle iniziative “social” di Google iniziano con incipit del tipo “Voglio bene a Google, però stavolta…”. Questo potrebbe iniziare allo stesso modo, se non fosse che, parlando di Google Buzz, è un po’ presto per farsi davvero un’opinione. Vero che si tratta di una piattaforma con molte decine di milioni di utenti dal giorno zero, ma il suo utilizzo è ancora troppo limitato per trarre conclusioni.

Dopo l’accartocciamento di Orkut (oggi sul solo mercato brasiliano), dopo la meteora infuocata di Knol (altro che Wikipedia), dopo lo sgonfiamento di Lively (persino Second Life ha resistito meglio) e soprattutto dopo il trauma collettivo di Wave (il grande sogno divenuto un incubo di usabilità), magari stavolta Google ha azzeccato la formula giusta per svolgere un ruolo preminente nel difficilissimo mondo dei social network “universali”.

La formula di Google Buzz, d’altronde, è ben rodata: è una copia di FriendFeed, spruzzata di “ispirazioni” prese da altri social network noti e condita dallo stile Google. Il suo peccato originale è probabilmente la volontà di integrare il più possibile i servizi già esistenti di Google: così come non aveva mai funzionato davvero Google Friend Connect, ora scricchiola il tentativo di trasformare Google Profiles nella base per lo sviluppo di Buzz.

Gmail ha la fiducia di circa 150 milioni di clienti, Facebook quasi tre volte tanto. Google Buzz ha una buona base di partenza nel primo servizio, ma solo in tempi lunghi arriverà a raggiungere la copertura del secondo. Molti di noi lo vivono come un esperimento per avvicinare ai social network gli utilizzatori abituali della posta elettronica Google, magari facendo leva sull’interazione via mobile che, al momento, non è certo il punto forte di Facebook.

Giudizio sospeso su Google Buzz, dunque, nella speranza di venire smentiti riguardo l’immaturità della soluzione, comunque in ogni caso un passo avanti rispetto alla macchinosità di Google Wave. Se l’esperimento di Google funzionerà, nuovi utenti si avvicineranno alle potenzialità di comunicazione offerte dai social network; se il tutto rimarrà così, sarà solo un macigno in più integrato in un’applicazione un tempo snella e veloce chiamata Gmail.

L’ora dell’harakiri virtuale

La notizia del giorno è la chiusura definitiva di Maestrini per Caso, storico blog italiano ormai agonizzante da mesi. La notizia della settimana la scomparsa dal Web di Paul The Wine Guy, fresco trionfatore ai Macchianera Blog Awards 2009. Si potrebbe andare avanti così, citando le scomparse dal Web di Dr. Pruno, SuzukiMaruti, Capitano: heavy users di social network che di punto in bianco abbandonano la scena e scompaiono.

FriendFeed in questo ha innovato il rituale dell’harakiri virtuale. Se i Maestrini lasceranno il loro account saggiamente intatto su Blogger, nulla scomparirà dalla nostra memoria storica; al contrario, coloro che hanno cancellato il proprio profilo da FriendFeed, hanno gettato nella confusione totale decine di utenti, discussioni, gruppi. FriendFeed infatti cancella ogni traccia dell’utente sulla piattaforma, lasciando decine di discussioni zoppe.

L’efffetto è straniante, perché da un lato ci si rende conto di quanto tempo si è dedicato a partecipare a discussioni che oggi non esistono più perché trascinate nel cestino insieme ai loro autori; dall’altro, ci si ritrova a leggere propri interventi decontestualizzati e spesso surreali, in risposta a item non più esistenti. Fioccano le discussioni del tipo “Ma che fine ha fatto Mr. X? Perché è sparita Miss Y?”, trascinando tutta la questione nel melodramma.

Dispiace, d’altra parte, quando un amico “virtuale” sparisce dalla circolazione. Può avere mille motivi per farlo, ma se la sua scomparsa comporta la cancellazione del proprio blog o del prorio profilo dal social network più utilizzato, in qualche modo ci si sente traditi e amareggiati. Sembra di essere nella clinica del Dr. Mierzwiak in Eternal Sunshine of the Spotless Mind: ci viene chiesto di dimenticare qualcuno che non vorremmo mai abbandonare.

Ci sono stati casi di contatti virtuali morti davvero ed in quel caso l’effetto è ancora diverso: gli interventi sulle piattaforme pubbliche rimangono, freezati nel tempo; quelli sui domini proprietari spariscono dopo pochi mesi, sostituiti da laconiche pagine che chiedono il rinnovo di domini ormai senza padrone; i profili sui social network, Facebook in primis, vengono sommersi da ricordi, condoglianze, segni di affetto postumo.

Essere heavy user di Internet oggi non è più un voler scappare dal mondo: al contrario, significa vivere costantemente in contatto con centinaia di altre persone, condividendo piccoli eventi quotidiani e grandi riflessioni sul futuro. Siamo esseri di parole ed emozioni, con una sola preghiera comune: smettetela di fare harakiri quando vi siete stufati di interagire col mondo. Freezate la vostra presenza, ma non cancellate i nostri ricordi comuni.

E tutti twittavano “Al lupo! Al lupo!”

Se nel mondo “reale” la morte di Mike Bongiorno ha rappresentato la fine di uno degli ultimi personaggi residui di un mondo che sta sparendo, in Rete si è assistito ad una sorta di rivisitazione italica della scomparsa di Michael Jackson vista attraverso i social network. Come era avvenuto in quell’occasione negli Stati Uniti, molti di noi hanno appreso la notizia curiosando in Rete, magari approfittando della pausa pranzo per fare un giro sulle piattaforme sociali.

I primi che hanno tweettato la notizia, a dire il vero, l’hanno comunque appresa da media tradizionali. Quelli che l’hanno letta, sono corsi a verificarla sui quotidiani online e, in assenza di riscontro immediato, hanno iniziato a retweettarla a mo’ di scoop del secolo. In realtà sono bastate poche decine di minuti per permettere ad agenzie e quotidiani di togliere dal freezer i coccodrilli, con molti particolari sulla carriera del presentatore e pochi sulle circostanze della morte.

La notizia si è quindi incanalata sui social network “di approfondimento”, quali FriendFeed e similari. I tweet hanno cambiato leggermente tono, passando dallo “sto dando una notizia in anteprima” a “mi dispiace per la morte di Mike Bongiorno”. Il focus del giorno quindi non è stato più il decesso in sé, ma le emozioni suscitate dall’evento in chi lo stava commentando a poche ore di distanza. Con tanto di commenti sull’efficacia di Twitter nel diffondere notizie.

Uno sviluppo tutto sommato equilibrato della vicenda, lontano da quello cui si assiste ogni volta che si è di fronte ad una notizia che si vorrebbe “far crescere dal basso”. Che si sia testimoni di una piccola o grande scossa di terremoto nel quartiere, di un treno che deraglia o di un violento acquazzone, lo spirito da reporter ci pervade rendendoci inconsciamente obbligati a gridare al mondo quanto sia importante ciò cui stiamo assistendo, alla faccia dei media silenziosi.

Grazie a Dio, raramente i nostri drammi sotto casa sono davvero rilevanti per il resto del mondo. I nostri contatti sui social network però si fidano della nostra percezione ed amplificano le notizione che diffondiamo a rotta di collo. Con tutta calma, le agenzie di stampa valutano l’accaduto, lo formalizzano con il livello di allarme che gli è proprio e lo immettono nel circuito tradizionale dei media. Solo in pochi casi la notizia ha davvero l’entità che percepiamo noi.

Una volta si diceva grassroots journalism e si faceva sui blog, ora bastano 140 caratteri per lanciare un urlo che, se il nostro network è abbastanza grosso e abbastanza suscettibile, non rimarrà solo. Dovremmo però imparare ad evitare di gridare “Al lupo! Al lupo!” e sconfessare i media se non premiano  la nostra voglia di protagonismo. Bene per la nascita dal basso dell’informazione; male, anzi malissimo, per il volersi sentire centro dell’universo.

Real time Web e Privacy: le grandi sfide per i motori di ricerca

Ci sono due issues che in qualche modo stanno condizionando e sempre più orienteranno lo sviluppo dei motori di ricerca: il cosiddetto “real time Web” e la gestione della privacy degli individui, siano essi navigatori abituali o meno. Due tematiche solo all’apparenza slegate, che interessano tutti noi prima ancora che le aziende coinvolte.

Il primo tema, come è ormai noto agli analisti più accorti, è la buzzword che monopolizzerà i mesi a venire. In più di un’occasione le principali Web Company mondiali l’hanno indicato come linea guida dei propri piani industriali e in qualche modo la disponibilità continua e aggiornata delle informazioni è da sempre l’araba fenice del Web.

I motori di ricerca si candidano come leader natural del campo e non sorprende che Google stia lavorando alacramente sul tema: i risultati di ricerca del motore oscillano oggi tra risultati troppo vecchi per essere interessanti e intere pagine di link a notizie che starebbero meglio su Google News che sulle pagine principali del motore.

Il fenomeno è evidente ad esempio quando avviene una catastrofe in un piccolo paese: le prime due-tre pagine di risultati sono link ad articoli ripetitivi dei quotidiani; le successive, sono informazioni prese random da vecchi articoli, post di blog, pagine tratte da siti irrilevanti. Marginali i riferimenti ai social network, privati o pubblici.

Su quest’ultimo tema attori come Bing stanno cercando di cambiare la logica tradizionale dei motori di ricerca. La paura di molti, tuttavia, è che il mix sia troppo difficile da dosare: qual è davvero l’informazione rilevante nelle ore successive la catastrofe? E nei giorni successivi? Ed un anno dopo, che valenza hanno i singoli item?

Proprio qui si innesta la seconda sfda, quella della gestione corretta dei dati personali che gli utenti, spesso innavertitamente, lasciano a disposizione dei social network. La corsa alle informazioni in real time passa inevitabilmente dalla raccolta e dalla sistematizzazione di tali dati, con conseguenze poco gestibili da parte dei singoli.

A molti piace la ricerca in tempo reale di Twitter, che permette di capire l’awareness di un argomento, oppure quella di FriendFeed, che restituisce rapidamente le discussioni in corso sulla piattaforma indipendentemente dalla fonte in cui sono state inserite. Sono strumenti affascinanti, potenti per i geek e dannosi per gli stolti.

Non affascina, invece, l’idea di un Google con 10 twittate come risultato della ricerca. All’estremo opposto, un motore di ricerca unicamente concentrato su informazioni consolidate risulta anacronistico e, specie nel caso di eventi dirompenti, inutile. Chi riuscirà ad azzeccare il giusto mix, potrà ottenere credito illimitato dalla collettività.

I limiti “umani” dei social network

Quando Buongiorno qualche settimana fa ha presentato il suo mobile social network Blinko, l’attenzione di astanti ed analisti si è focalizzata sul limite di 20 connessioni imposto di default ad ogni iscritto. Un po’ come al mercato delle mucche sono iniziate le discussioni del calibro: sono troppo pochi vs. sono pure troppi, è un numero arbitrario vs. ha un fondamento scientifico.

Il tema del numero di contatti sui social network appassiona da tempo i blogger, ma è ormai evidente a tutti che lo stesso mitologico numero di Dunbar è troppo esteso per essere sinonimo di un numero realistico di relazioni attive. Anche gli esperimenti effettuati da Facebook dimostrano che, in realtà, sui 120 contatti medi di ogni iscritto, i “seguiti” sono circa una decina.

“Seguire” qualcuno su un social network, d’altronde, richiede tempo ed energia. Permette spesso di ottenere informazioni quotidianamente utili o professionalmente interessanti, ma per la maggior parte ci regala aggiornamenti di vita quotidiana che, a meno che non si stia parlando di partner-amici-conoscenti-parenti, possono per la maggior parte sembrarci del tutto superflui.

Abbiamo aumentato i nostri flussi comunicativi in uscita e abbiamo cercato di ampliare le possibilità di ricezione di quelli altrui, ma il nostro tempo e la nostra capacità intellettiva sono rimasti gli stessi di sempre. Abbiamo più strumenti di interazione (e in questo il mobile ci sorprenderà sempre più), ma non sempre riusciamo a piegarli alle nostre esigenze ed ai nostri ritmi.

I social network sono bacini enormi e stiamo costruendo comunità virtuali, sempre più interagenti l’una con l’altra, che ruotano intorno a noi stessi ed alle nostre vite. Siamo affascinati e divertiti da ogni membro che vi aderisce, specie quando arriva dal nostro passato e inizia ad interagire con noi nel presente. Ma abbiamo un limite: non possiamo garantirgli che gli daremo attenzione in futuro.

Facebook vs. FriendFeed e la mappatura della propria vita

Il successo di Facebook in Italia negli ultimi mesi lo possiamo verificare tutti: alzi la mano chi ultimamente non si è meravigliato di incrociare sul social network più pompato dai media persone perse di vista da anni, ma soprattutto di cui si ignorava del tutto la vena tecnofila che, fino all’anno scorso, contraddistingueva gli iscritti a questa e alle altre reti sociali. La verità è che tale vena queste persone non l’hanno proprio: sono utenti della Rete di un nuovo tipo, insospettabili navigatori fino a poco tempo fa del tutto digiuni.

Ora è bello vederli scorazzare su Facebook, inserire foto e scambiarsi poke, contattarsi tramite applicazioni improbabili e andare alla ricerca di parenti e vecchie conoscenze. Si tratta di una sorta di democratizzazione della Rete che rende felici, ma che lascia qualche sospetto riguardo all’effettiva percezione che i neo-utenti di Facebook hanno della potenza del mezzo: dubbi che sorgono nel vedere professionisti descriversi mentre si puliscono il naso con le dita e colleghe che parlano dell’ubriacatura della sera prima.

I navigatori più esperti il proprio status lo rendevano noto da un pezzo con Twitter, si dirà. Eppure, quei messaggini da 140 caratteri hanno sempre avuto un fascino (e un contenuto) diverso da quello dello status o delle applicazioncine di Facebook: una mappatura selettiva del proprio quotidiano, un filtro furbetto per dare tutto sommato buona immagine di sé distribuendo (ove opportuno) i propri aggiornamenti solo agli amici più intimi. Poco più di un gioco di SMS virtuali tra amici virtuali, insomma.

Quei navigatori esperti, oggi, sono in massa su FriendFeed. Twitter è una piattaforma molto limitata mentre FriendFeed permette di mappare la propria vita virtuale (e tenere d’occhio quella degli altri), commentandola in maniera serena e divertente. Non molto diverso da Facebook, forse: ciò che cambia davvero, però, è la consapevolezza del mezzo; ciò che lo rende unico, è la capacità di mappare la propria vita e quella altrui, ma scegliendo se e come farlo, non subendolo su invito.

TamTamy, il social networking all’italiana

A volte fa piacere poter parlare bene del lavoro di amici: si è consci di essere un po’ di parte, ma se si prova a mantenere un minimo di obiettività, si può riuscire a scrivere post informativi e non inni fini a sé stessi. Obiettivo, questo, che anche queste righe vorrebbero avere: spiegare a chi non la conoscesse cos’è TamTamy e perché questa piattaforma italiana è un piccolo orgoglio nazionale.

A dire il vero, Pino Fondati su Il Sole 24 Ore, la scorsa settimana, ha già riepilogato bene le coordinate di TamTamy: si tratta di una piattaforma prodotta da Reply per offrire a privati, piccole e grandi aziende una serie di strumenti tecnologici 2.0 integrati in un unico contesto. Basta immaginare WordPress MU mescolato con forum, wiki, chat e ricoperto da uno strato user-friendly che permette di utilizzare i vari strumenti in maniera “lineare”.

TamTamy è gratuitamente testabile, in versione Alpha, da parte di chi volesse avviare un proprio social network. Aziende, club e anche gruppi di amici possono interagire tramite una piattaforma abbastanza versatile, sfruttandone tutti o alcuni degli strumenti disponibili: si tratta di un progetto del tutto italiano, anche se il lancio internazionale degli scorsi mesi ha fatto sì che l’interfaccia attuale sia in lingua inglese.

Gli iscritti di questa versione Alpha che hanno avviato un proprio network sembrano già essere diversi e sorge una certa curiosità su quale sia il feedback dei “pionieri”. Al contrario, è noto che chi ha vissuto TamTamy nella sua prima installazione, quella di Intranet Reply, ha un buon ricordo fatto di persone, storie e dialoghi, prima ancora che di tecnologia.

Per quanto paradossale, più una tecnologia riesce ad essere invisibile all’utente finale, più ha la possibilità di venire adottata in maniera “naturale” anche da chi non ha particolari competenze tecniche. TamTamy gode di questo paradosso, visto che riesca ad agire silenziosa in sottofondo offrendo strumenti diversi in maniera discreta, non oppressiva: usi solo ciò che ti serve.

Ci sono spazi di miglioramento, come per tutte le piattaforme in Alpha. La possibilità di giocare sull’asse “contenuto pubblico vs. contenuto privato”, ad esempio, permetterebbe probabilmente di superare in scioltezza soluzioni similari, non relegando TamTamy a puro strumento di comunicazione interna; l’integrazione di un CMS leggero permetterebbe di creare tumblelog ed altri spazi di condivisione “veloci”.

Qualunque siano le dimensioni di sviluppo, comunque, massimo rispetto per il TamTamy Team, che una volta tanto ci fa sentire orgogliosi della professionalità italiana anche quando si parla di tecnologia. Cosa affatto scontata, per chi è capitato agli eventi Web 2.0 in Stati Uniti e Germania dove Reply era presente come sponsor: una piccola isola tricolore in un tripudio di stelle e strisce.

Il mito del consumatore alto, bello e propenso a spendere

Qual è il target più ambito dai markettari di tutto il mondo? Notoriamente, i gay: i media continuano ad alimentare il mito che li pittura come «statisticamente più ricchi, sofisticati e spendaccioni» e così si alimenta il circolo vizioso per cui confidando nelle loro raffinate esigenze si alzano i prezzi all’inverosimile ed alla fine si riesce ad intercettare il solo target di omosessuali veramente ricchi e gaudenti, alimentando ulteriormente la credenza popolare ed estromettendo dall’offerta il resto della popolazione gay. Ragionando a mente fredda, viene da domandarsi come si sia potuto creare una correlazione tra identità sessuale e propensione al consumo: tenendo questo passo, presto si sosterrà che è chic andare con i trans se si è sniffatori di cocaina.

La realtà è sempre più sfaccettata di ciò che le categorie di consumatori create ad hoc dagli istituti di ricerca cercano di fotografare: è già difficile immaginare cluster compatti di consumatori, ma è a dir poco impossibile riuscire a soddisfarne le esigenze con offerte di massa. Ci si prova quotidianamente, con tutti i “distinguo” che i bravi marketer tengono sempre a mente: è bene volgere le asimmetrie informative a proprio favore, è male cercare di imporre ex abrupto delle categorie che poi non trovano riscontro nella realtà quotidiana. Categorie che (ecco un altro mito) sembrerebbero essere superate dalla flessibilità offerta dal Web e che invece vengono solo frammentate in mille rivoli di interessi differenti, poco omogenei, in definitiva non trattabili come insiemi, ma poi riclusterizzati alla meno peggio per seguire le indicazioni della Nielsen.

Negli scorsi giorni, Massimo Moruzzi ha condotto un’interessante discussione sul suo blog a proposito del profilo “atteso” da chi investe in pubblicità in Rete: siamo tutti così abituati a dire che la Rete è popolata da coltissimi professionisti propensi a spendere (on line e non) che quando scopriamo che a cliccare sulle pubblicità sono le sciure alla ricerca di buoni sconto, ci rimaniamo male. Poi però facciamo un po’ di mente locale e ci rendiamo conto che effettivamente tutti noi abbiamo cliccato almeno una volta su un leaderboard e quell’unica volta era legata al concorso a premi dei Pan di Stelle del Mulino Bianco o del dolcificante. Prodotti che magari non compreremo mai, che non sono minimamente nel nostro target, ma che ci hanno attirato con la loro campagnetta “Clicca qui e vinci un iPod”.

I consumatori perfetti non esistono. Non esistono perché non siamo in un mercato perfetto, ma nella realtà quotidiana: nessuno si alza la mattina per impiegare le proprie risorse economiche nella maniera più efficiente; tutti si alzano la mattina per cercare di sfruttare le opportunità offerte dal mercato, sperando di essere un pelo più furbi degli altri consumatori ad intravederle (vedi corsa all’acquisto sottocosto negli ipermercati) e più scaltri dei rivenditori (vedi corsa alla vendita sottocosto negli ipermercati). La verità è che tutti gli altri consumatori avranno una sensibilità mediamente pari alla nostra e difficilmente un rivenditore perderà il pallino della propria operazione promozionale: persino MediaWorld è riuscita a recuperare alla grande dalla bizzarra situazione in cui si era posta dopo il Mondiale di Calcio 2006.

Ci sono professionisti come Luca Lani che di pubblicità in Rete vivono e sicuramente le loro analisi possono suonare positive per chi voglia investire: probabilmente tali professionisti sono abbastanza professionali (!) da illustrare agli investitori pregi e difetti del mercato pubblicitario in Rete. Ci sono poi aziende cresciute troppo velocemente che vogliono fare le furbe, spacciando piattaforme come Facebook e similari come il media pubblicitario del futuro e finendo per vendere a CPM a consumatori teoricamente perfetti. Ovviamente colti, ricchissimi e molto smart. Che però poi passano il tempo a pubblicare foto delle vacanze, mordere virtualmente le proprie connessioni ed ignorare del tutto le campagne in questione. A meno che, ovviamente, non riguardino i Pan di Stelle, i dolcificanti e gli iPod in premio.

Alcune lessons learned sul social networking

Delle piattaforme dedicata al social networking, in questi anni, abbiamo parlato tanto: dai primordi di Orkut (tornato alla ribalta qualche mese fa solo per i problemi con Daniela Cicarelli) all’eterno successo di LinkedIn, dalle cronache giudiziarie su YouTube e Google Video ai miti costruiti su MySpace e dintorni, dalle alterne vicende di Flickr al successo (parzialmente) inaspettato di aNobii. Ogni volta si è arrivati alla più classica delle considerazioni: che ogni piattaforma non è una monade intoccabile, ma un pianeta affogato in un universo in costante crescita. Il successo di ognuna di queste iniziative, d’altronde, è emerso ed esploso grazie all’eco che le informazioni pubblicate in quelle sedi hanno avuto in altre sedi, blog dei membri in primis. Ora è forse venuto il momento di trarre qualche lezione da quanto visto in questo lustro di reti sociali, in termini di design, ergonomia e gestione delle piattaforme e di interazione delle stesse con il resto dell’universo Web: ecco sfornato un bel decalogo, visto che questo tipo di liste piace tanto agli utenti italiani.

  1. Lasciate etichettare correttamente le relazioni tra membri

    Se c’è un problema reale in LinkedIn, consiste nel fatto che tutte le relazioni hanno uguale valore. Se c’è qualcosa che fa star male in MySpace, è che la stragrande maggioranza dei “friends” sono contatti fittizi gestiti da soggetti non meglio identificati o comunque del tutto lontani dal membro in questione. Al contrario, su Flickr, è possibile strutturare il livello di profondità del rapporto in termini più precisi, distinguendo tra “contatto”, “amico”, “familiare”; su aNobii, è possibile tracciare i propri “amici”, ma anche sottoscrivere gli aggiornamenti di sconosciuti dai gusti interessanti, etichettandoli come “vicini”. Nel medio termine, la possibilità di etichettare correttamente le relazioni sarà un asset per le piattaforme che hanno gestito meglio questo aspetto (es. i diritti di accesso alle informazioni differenziati su Flickr).

  2. Non costruite piattaforme troppo rigide

    L’angoscia implicita nel gestire il proprio profilo su Facebook, deriva dal fatto che la piattaforma lega indissolubilmente la partecipazione ad un network con il possesso di un indirizzo e-mail. Assodato che non potrete mai più entrare tra gli alumni del vostro Ateneo a causa della mancanza di un indirizzo e-mail del relativo dominio, vi verrà voglia di cercare di far parte almeno del network dell’azienda attuale. Nel caso in cui l’azienda in questione non sia già tracciata, dovrete inviare richiesta formale a Facebook per avviare il relativo network. Alla fine, aderirete sconsolati solo al vostro network nazionale, che di per sé è del tutto inutile (qual è il senso di affermare la propria partecipazione ad un network “Italy”?). Gli utenti, alla lunga, si stancano delle rigidità, specie di quelle che non favoriscono l’integrità collettiva dei dati, ma sembrano pure perversioni dei designer; preferiscono piuttosto la folle anarchia delle pagine di MySpace, tutte diverse l’una dall’altra e tutte totalmente destrutturate (alla faccia dell’accessibilità).

  3. Permettete di condividere i contenuti sui siti di proprietà dei membri

    Ora ci sembra una lezione banale, ma è grazie a questo aspetto che le piattaforme di condivisione di contenuti multimediali sono cresciute ed hanno raggiunto quotazioni incredibili. YouTube è stata la prima a capire questo nuovo paradigma: a costo di sacrificare un po’ di banda in più, è riuscita a piazzare milioni di box col proprio marchio in blog e siti di varia natura. Degli spazi multimediali, in cui proiettare il video richiesto dall’utente e poi suggerire altri contenuti interessanti, pubblicità ed informazioni in continua evoluzione: altro che AdSense, questo sì che può diventare il mezzo pubblicitario del futuro di Google. Nel loro piccolo, anche Flickr ed aNobii stanno creando utili agganci nelle pagine dei propri membri: non male, in un mondo in cui la credibilità viene misurata in termini di link.

  4. Scegliete correttamente il vostro target

    Dev’essere facile, fare il country manager di Studylounge, rispetto a svolgere lo stesso ruolo in Facebook. Nel primo caso la missione del tuo portale è chiara ed i membri si iscrivono con obiettivi precisi. Nel secondo sei ancora alla ricerca di un’identità (già, anche Facebook era nato per tracciare le care vecchie informazioni universitarie) ed invidi un po’ il tuo alter ego in LinkedIn che gestisce una comunità di milioni di membri esclusivamente dediti a mappare le proprie relazioni professionali. Poi guardi verso il tuo collega di MySpace e ti domandi dove voglia arrivare: OK inseguire i ragazzini, ma si sa che sono soggetti volubili e l’evoluzione di Orkut insegna. E le comunità di professionisti saranno anche un target interessante, ma ormai sono un po’ troppe (ed i membri si annoiano a mappare ogni volta gli stessi contatti).

  5. Individuate il vostro mercato geografico

    Orkut è un caso di studio anche per quanto riguarda l’evoluzione geografica delle piattaforme dedite al social networking. Si tratta, infatti, di un network ormai popolato quasi esclusivamente da brasiliani: i naviganti del resto del mondo si sono iscritti nel 2004 e poi se ne sono dimenticati. In Brasile, invece, la piattaforma evolve ed accumula credibilità per varie applicazioni, dal dating alla condivisione di contenuti multimediali. Una storia strana, rispetto alle altre piattaforme, solitamente nate negli Stati Uniti e poi evolutesi in maniera uniforme in tutto il Mondo, con rilasci progressivi della propria infrastruttura nella lingua del Paese di volta in volta target. Se avete sogni di gloria, seguite questa strategia; altrimenti, create la vostra bella piattaforma nazionale e concentratevi sul diventare leader in questo mercato ristretto, nella vostra nicchia di riferimento.

  6. Spingete sull’integrazione con altre piattaforme, preservando le vostre peculiarità

    Il concetto di mash-up è alla radice di tutti i fenomeni etichettati come Web 2.0 e dei social network in particolare. Riuscire ad integrare servizi infrastrutturali di rete (es. le applicazioni geografiche di Google) con i contenuti dei propri membri, ma anche con i servizi della concorrenza, riesce a regalare all’utente una sensazione di maggiore affidabilità e completezza. Facebook ha puntato tutto su questo: con l’ambizione di diventare il “sistema operativo” comune e trasversale alle altre piattaforme dedicate al social networking, ha sviluppato e permesso di sviluppare gadget, tools e widget che, attingendo dalle fonti più svariate, permettono di mappare efficientemente il proprio profilo e le proprie relazioni. Peccato che, in questo senso, Facebook ha perso ogni peculiarità rispetto ai concorrenti; meglio piattaforme come aNobii che offrono informazioni in più (i libri preferiti ed i desideri d’acquisto) rispetto al solito profilo individuale, integrando eventuali informazioni provenienti dall’esterno (Amazon, ad esempio, in questo caso) in maniera seamless.

  7. Effettuate investimenti adeguati

    Sequoia Capital potrà anche continuare ad investire su LinkedIn (e su altre piattaforme di social networking) milioni di dollari, ma questo farà solo sorgere il dubbio che le nostre piattaforme preferite siano ancora bimbi incapaci di camminare con le proprie gambe. Il problema è che mantenere piattaforme così radicate a livello mondiale costa. E non poco. Basti pensare ai social network basati sulla condivisione di materiale multimediale: lo spazio per storare centinaia di migliaia di video, le infrastrutture per erogarli e la banda per distribuirli sono investimenti non banali. E se finito lo startup avete eternamente bisogno di venture capital, vuol dire che il vostro modello di business ha ancora qualche problema…

  8. Permettete livelli di aggregazione diversi tra i membri

    Il successo dei forum di Flickr ha dimostrato la positività di un modello che, accanto alle sottoscrizioni individuali, permette anche l’aggregazione di gruppi spontanei ed ai gruppi stessi propone strumenti per favorire la condivisione delle proprie passioni. Facebook permette la creazione di gruppi più o meno destrutturati, accanto agli ufficialissimi network, offrendo strumenti di collaborazione diversi. LinkedIn permette di mettere delle simpatiche etichette sui propri profili che rappresentino l’appartenenza a Gruppi ma, di fatto, non offre particolare supporto a queste comunità. In fin dei conti, il caro vecchio forum sembra ancora lo strumento più adeguato a supportare gruppi e sub-network: l’importante è che sia ben integrato nella piattaforma.

  9. Supportate i vostri Clienti (o Fornitori)

    Sarà anche divertente leggere i profili dei vostri membri o scorrerne il video, ma ricordate che, li intendiate come clienti o come fornitori, dovete essere pronti a supportarli nella loro attività quotidiana. Le piattaforme di social networking, sino ad ora, hanno mostrato zero supporto: qualche form per richiedere assistenza, qualche e-mail automatica di ritorno, poi niente più. Unica eccezione positiva, aNobii: complice probabilmente la sua dimensione ancora ridotta, questa piattaforma non solo raccoglie il feedback degli utenti su ogni item (per la serie “migliorate le informazioni insieme a noi”), ma gestisce rapidamente anche le richieste di censimento di nuove opere e soprattutto risponde con serietà a chi segnala bug, risolvendoli quasi in real time. Gli altri, purtroppo, sono molto ma molto più indietro.

  10. Facilitate la comunicazione tra i membri

    L’aspetto positivo delle regole iniziali di LinkedIn consisteva nella protezione dallo spam: la richiesta di essere riconosciuti come contatto di un membro già iscritto doveva necessariamente passare per la conoscenza del suo indirizzo e-mail, la possibilità di ricevere un messaggio era legata alla presenza di conoscenze intermedie in comune. L’aspetto negativo di queste regole era l’irraggiungibilità di contatti persi da tempo, tipico output positivo di questo tipo di piattaforme. Ora il modello di LinkedIn è decisamente cambiato: basta dichiarare di essere un ex-collega di un altro membro, per inoltrargli richiesta di connessione. Questo però ha fatto scemare l’importanza degli altri strumenti di contatto, compreso il contatto tra membri mediati da una conoscenza comune. Una vicenda che simboleggia il comportamento di molte altre piattaforme: pongono regole rigide iniziali e poi le allentano nel tempo. Attenzione, però, a bilanciare quotidianamente vincoli sciocchi e protezione dallo spam.