Chiama il 187

C’è una campagna pubblicitaria che in Rete sta riuscendo ad attirare ironie a senso unico: è quella che vede protagonisti Michelle Hunziker e John Travolta che, flirt dopo flirt, provano a convincerci della convenienza delle offerte ADSL di Telecom Italia. La protagonista, vestita da Alice (essere mitologico vestito di rosso che per anni ha infestato anche Francia e Germania), era già stata protagonista di una serie di spot con Max Tortora sulla stessa falsariga, poi bloccati dal Gran Giurì della Pubblicità perché ingannevoli.

Sarà per questo o perché Travolta faccia (ovviamente) fatica a parlare italiano, ma i dialoghi della nuova serie sono stati veramente limitati al minimo, rendendo ancora più improbabili le scenette. Prima la storia tra i due protagonisti italiani sembrava progredire, ora di spot in spot Michelle e John si avvitano su sé stessi in colloqui poco chiari, che culminano con un “Chiama il 187” a ciel sereno. Il che, con tutta evidenza, non è la più convincente delle call to action, specie per quello che potrebbe essere il target delle ADSL.

Cosa succede chiamando il 187? Dopo l’incipit della musichetta dello spot (un passaggio infelice della canzone Rain di Mika), rispondono annoiati operatori del call center che, dopo mesi di tentativi outbound, ora dovrebbero essere pronti ad una marea (?) di richieste proattive di sottoscrizione degli abbonamenti di Alice. Le altre TelCo stanno seguendo a ruota ed ormai la maggior parte degli spot termina con l’invito a chiamare un numero che però, contrariamente a quello Telecom Italia, ha spesso pura vocazione commerciale.

Sono anni che le pubblicità di Alice ADSL tornano su .commEurope. Segno probabilmente dei GRP costantemente alle stelle che, inevitabilmente, portano le campagne persino nell’immaginario di chi la TV non la guarda. Da questo punto di vista, ovviamente, Euro RSCG ha raggiunto un obiettivo importante. Ora però resta da vedere dove arriveranno i dialoghi, soprattutto nelle versioni short che, pur con tutta l’arte possibile di Alessandro D’Alatri, al momento suonano più come esperimenti dadaisti che come spot pubblicitari.

Nove centesimi

Estate 2005: su .commEurope ci si interrogava sulle campagne di basso profilo che scorrevano su Corriere.it. I fatturati della versione digitale del quotidiano evidentemente non andavano un granché e quindi l’editore raccimolava centesimi alla meno peggio. Una manciata di mesi dopo, il mercato accoglieva un annuncio a tratti sconvolgente e a tratti prevedibile: RCS Mediagroup annunciava con enfasi l’acquisisizione di Dada e la sua voglia di integrare i servizi multimediali dei due gruppi.

Un bel colpo, che si è tradotto in uno stillicidio lungo quasi un lustro. Ogni manciata di mesi, RCS Mediagroup ha annunciato l’acquisizione di qualche briciola del capitale sociale di Dada, sino all’annuncio di gennaio 2010 (!) di aver finalmente superato il 50% del gruppo fiorentino. Complice forse anche questa lunga danza finanziaria, delle possibili sinergie editoriali ed industriali tra i due gruppi, negli ultimi anni si è visto ben poco e quasi tutto in favore di Dada più che del gruppo editoriale.

Mentre Dada ha continuato la sua politica di acquisizioni in ambito digital goods, RCS Mediagroup ha continuato sulla sua strada di indecisioni sul proprio business model, complice la crisi economica generale e quella dell’editoria in particolare. Flessione continua delle vendite in edicola, qualche piccolo segno positivo in ambito display advertising, il lancio di Premium Publisher Network, gli investimenti per offrire i quotidiani del gruppo via mobile browsing e mobile application.

Proprio su quest’ultimo punto, in questi giorni, si stanno alzando gli strali verso l’editore, ritenuto colpevole, con la “complicità” di Tre (e si mormora presto con quella degli altri Operatori mobile), di aver iniziato a far pagare i contenuti del quotidiano indipendentemente dalla modalità di visualizzazione. Per la prima volta, notano i più arrabbiati sui social network, si esce dall’equazione walled garden=fregatura e si passa direttamente a l’Operatore sa cosa/dove navighi e te lo fa pagare di conseguenza.

Chi oggi si indigna per la scelta di RCS e magari si eccita per Apple iPad e per la possibilità di “consultare in mobilità i quotidiani”, forse dimentica che il quotidiano da sempre si consulta in mobilità. E dimentica pure di essere in un Paese in cui appena pochi mesi fa 40.000 persone hanno prenotato un abbonamento da 130 Euro a scatola chiusa al Fatto Quotidiano. Ed in cui si spende abitualmente 10/15 centesimi di Euro per inviare ogni SMS. E che forse 9 centesimi a pagina, molti, li spenderanno pure.

Il 2010 sarà l’anno del Mobile Internet

Un giorno qualsiasi del 2003, in un’aula della Scuola di Amministrazione Aziendale di Torino: un gruppetto di middle manager dell’ex Omnitel, da poco Vodafone Italia, presenta agli studenti del Master in Business Administration le strategie dell’Azienda all’alba dell’UMTS e poco tempo dopo il lancio di Vodafone Live! e degli MMS, servizi adeguati ai terminali a colori da pochissimo presenti sul mercato.

Ad un certo punto, un allievo dell’MBA alza la manina e chiede come mai Vodafone Italia non abbia ancora lanciato tariffe flat per navigazione GPRS, nemmeno per la clientela aziendale. I manager rispondo indispettiti, rispondendo che la navigazione col cellulare non trova interesse sul mercato. Chi muore dalla voglia, può ricorrere agli interessantissimi servizi di Vodafone Live! via Wap.

Passano pochi anni ed Internet Mobile diventa un fulcro dell’offerta di Vodafone in tutta Europa. Tutti gli operatori concorrenti, d’altra parte, hanno da tempo lanciato le ormai diffusissime chiavette USB per sostituire gli ingombranti modem PCMCIA e la rete si è evoluta offrendo prima l’UMTS, poi l’HSDPA/HSUPA. I cellulari evoluti, sempre più simili a PDA evoluti, hanno fatto il resto.

La domanda c’è, eccome. Sebbene la copertura in alcune zone d’Italia sia instabile o addirittura assente, molti di noi hanno capito i vantaggi della navigazione in movimento. Si accennava in merito parlando di trend 2009: durante le feste, molti di noi avranno notato un aumento drastico degli auguri via social network. Dall’altro lato, milioni di persone hanno continuato a far crollare la rete TIM come tradizione.

Quest’anno ci sarà la svolta. Se proprio bisogna individuare un macrotrend per il 2010, sarà sicuramente l’esplosione del Mobile Internet, anche tra gli “insospettabili” utenti del mass market. I dati di Gartner confermano un’ampia crescita della diffusione degli smartphone, ma più che un’evoluzione hardware sarà soprattutto uno shift culturale (prezzi della connettività permettendo).

In maniera abbastanza incredibile, Morgan Stanley ha rilasciato materiale prezioso in maniera pubblica, utile per immaginare l’evoluzione del mercato e confermare sostanzialmente questa evoluzione del mercato anche a livello internazionale. Teniamocelo da parte, perché potrà esserci utile per comprendere uno dei pochi sviluppi positivi che ci riserva questo difficile 2010.

Quaranta anni di Internet

Nell’autunno del 1969 l’agenzia governativa statunitense ARPA (poi conosciuta come DARPA, in un eterno altalenare tra i due nomi) diede l’avvio a quella che sarebbe stata la più importante invenzione della seconda metà del ventesimo secolo: erano i primi passi di Internet, substrato indispensabile delle nostre vite contemporanee e tecnologia abilitante per tutte le invenzioni di rilievo successive. Nemmeno la peggiore delle distopie riuscirebbe ad immaginare un mondo diverso da quello odierno, senza la Rete e le sue ricadute profonde su ogni tecnologia di comunicazione, su ogni contesto sociale che abbia superato la soglia della civiltà.

Qualche anno fa si plaudiva, giustamente, a Tim Berners Lee ed al suo World Wide Web; oggi, con l’evolversi di nuovi protocolli e nuovi contesti d’uso, ci si rende conto di come Internet stia evolvendo molto oltre il concetto di pagina Web, di sito da navigare per cercare informazioni. Dobbiamo esultare per la capacità di rigenerarsi ed evolvere, di riscoprire quotidianamente gli strumenti di base ricombinandoli in nuove possibilità di interazione e comunicazione. Persino la posta elettronica sta conoscendo una nuova giovinezza, spesso nascosta sotto le spoglie di messaggi di servizio, a supporto delle applicazioni che girano su BlackBerry e similari.

La grande svolta di Internet è probabilmente avvenuta nell’ultimo lustro, quando i relativi protocolli e linguaggi hanno iniziato ad ibridarsi in maniera complessa con i linguaggi di programmazione “vecchio stile”. Molte persone hanno iniziato ad utilizzare il browser come strumento principale di lavoro senza nemmeno rendersene conto, accedendo ad applicazioni remote le cui interfacce e modalità di funzionamento si sono fatte ogni giorno più vicine a quelle del Web. Negli ambienti iniziali la Rete è diventata la metafora e il background in cui mischiare operatività quotidiana, comunicazioni top-down e primi accenni di flussi informativi tra colleghi.

Oggi possiamo goderci lo slideshow del Guardian che narra la storia di Internet, sorridendo su piccoli fallimenti e grandi successi delle tecnologie che si sono alternate sui nostri schermi nel corso di questi 40 anni. Ci sono sfide importanti ancora da giocare, come le decisioni globali sulla Net Neutrality o l’indipendenza della Rete da censori pubblici poco illuminati. Ciò che conta è che continuerà ad accompagnarci nella vita quotidiana e lo farà sempre più in maniera nascosta: il che è un bene, perché solo quando si capirà che la connettività è un’utility primaria al pari della corrente elettrica o dell’acqua potabile, il tutto potrà librarsi libero da vincoli.

Torniamo a parlare di banda larga

Ogni due anni, di questi tempi, ricomincia il dibattito sulla banda larga. A metà luglio 2005, il Ministero dell’Innovazione strombazzava un intenso lavoro di diffusione della banda larga, soprattutto in scuole e strutture sanitarie. A metà maggio 2007, l’iniziativa “La fibra che ride” di Stefano Quintarelli aveva infiammato la Rete, lanciando il dibattito sull’importanza di non cedere alle lusinghe delle tecnologie xDsl al posto della fibra ottica. Oggi, a metà giugno 2009, l’ormai noto Rapporto Caio è stato ufficialmente presentato in Parlamento, con tanto di prese di posizione ufficiali del Governo sugli investimenti.

I temi sono sempre gli stessi: la penetrazione della fibra ottica in Italia negli ultimi cinque anni è rimasta sostanzialmente stabile in termini di abitazioni raggiunte e offerta commerciale. La crescita delle xDsl, come se non bastasse, ha fatto ulteriormente abbassare la percentuale di connessioni in fibra rispetto al totale di quelle definite “broadband” nel documento curato da Caio, che riprende dati OECD: 2,7% del totale. Un numero davvero ridicolo, anche perché tutti sanno che è tendenzialmente legato all’offerta di Fastweb presente in poche grandi città, con servizi ormai da anni uguali a sé stessi e sempre costosi.

Gli annunci di ieri parlano di investimenti per un miliardo e mezzo di Euro, per garantire una copertura fino a 20 Megabit per quasi il 96% degli Italiani, con copertura radio nelle zone in cui non è possibile arrivare con i cavi. Un’iniziativa che dovrebbe dare lavoro a decine di migliaia di persone e che riuscirebbe a coniugare investimenti pubblici infrastrutturali e sviluppo economico, con ritorni impressionanti sul PIL: 1,45 Euro per ogni Euro investito. Numeri piacevolmente impressionanti, che però hanno il sapore amaro della vittoria ad una partita che non verrà mai giocata. Anzi, forse nemmeno organizzata davvero.

La partita, d’altronde, doveva già averla chiusa da un pezzo Infratel, la società nata qualche anno fa in seno a Sviluppo Italia proprio con la missione di annullare il digital divide sul territorio nazionale. Iniziativa come al solito svanita nel nulla, così come purtroppo è realistico spariranno presto anche i fondi che, teoricamente, sarebbero già stati stanziati per questa nuova ondata di investimenti. L’unica speranza potrebbe essere rivolta agli operatori telefonici, ma è evidente a tutti che non sono esattamente immuni dalla crisi imperante. Ne riparliamo tra due anni, anche se ci sono seri dubbi che succederà davvero qualcosa.

La promessa mancata degli MVNO italiani

Con il lancio di Erg Mobile il numero di Mobile Virtual Network Operator, unito a quello degli operatori telefonici maggiori, raggiunge la ventina. Un numero sorprendente, anche perché sarebbe facile sfidare qualsiasi italiano ad elencarli tutti: pochi andrebbero oltre Tim, Vodafone, Wind, 3 e (forse) Poste Mobile.

Tolti i 4 player maggiori, d’altronde, tutti gli altri operatori cubano nella migliore delle stime un milione e mezzo di Clienti: il fatturato complessivo, secondo le Authority, è stimabile in qualche milione di Euro l’anno, nell’ordine dell’1% del fatturato totale del pur florido mercato della telefonia mobile italiana.

A parte gli spot di Poste Mobile, d’altronde, la comunicazione degli operatori mobili in questi anni ci ha toccato solo durante la spesa, con le iniziative di Coop, Auchan, Carrefour, Conad proposte alla meno peggio sui manifestini promozionali delle offerte. Solo negli ultimi tempi sono apparse le offerte di TelCo come Tiscali e Fastweb.

Nonostante il posizionamento sul mercato italiano sia sempre legato ai presunti prezzi bassi, i listini degli operatori mobili si scontrano con le offerte che, quotidianamente, gli uffici marketing dei grandi operatori mobili sfornano e accompagnano con imponenti campagne pubblicitarie e attività sui punti vendita.

Noi clienti siamo ormai abbastanza “scafati” dal riconoscerle al volo. Anni di abitudine con marchi come Tim e Vodafone fanno sì che l’emergere di un concorrente credibile sia a dir poco difficile: persino 3, pur con decine di campagne alle spalle, non è riuscita a crearsi un mercato paragonabile a quello dei due “grandi”.

Nel resto d’Europa, gli MVNO vanno abbastanza bene. Si tratta di operatori piccoli, certo, ma che riescono a intercettare nicchie di mercato a valore aggiunto, offrendo anche servizi che vanno oltre voce e messaggistica di base. In Italia no: solo Auchan Mobile al momento offre un’offerta HSDPA, clonata da quella di Wind.

Anche a voler proiettare a molti anni gli attuali tassi di crescita degli MVNO del mercato italiano, non ci saranno mai attori realmente competitivi e credibili. Si tratta di un peccato, perché questo farà sì che l’innovazione tecnologica e commerciale sul mercato sarà sempre dovere (e potere) dei grandi operatori.

Una posizione eretica sui prezzi dell’iPhone in Europa

L’iPhone, in Europa, non è così caro come sembra. Detta così suona come un’affermazione piuttosto forte rispetto alla reazione che i blogger europei hanno avuto davanti ai costi del nuovo terminale 3G della Apple. La condanna è infatti unanime, in Italia come all’estero: un prezzo dei terminali che mediamente si pone sui 500 Euro (considerando un prezzo medio tra la versione a 8 GB e quella a 16 GB) viene ritenuto un freno insopportabile alla diffusione dello strumento.

Le statistiche degli Operatori mobili, a quanto si dice nell’ambiente TLC, dimostrano l’infondatezza del teorema: le vendite sono alle stelle, soprattutto per il modello a 16 GB. Cosa peraltro del tutto prevedibile: il terminale si aspettava in Europa da ormai un anno e i più smart hanno preferito attendere una versione localizzata e tecnologicamente molto più avanzata della precedente, piuttosto che supplicare gli amici in visita negli Stati Uniti di stivare la versione originale nei propri bagagli.

Si può comprendere il disappunto degli Europei nello scoprire che un terminale che dall’altra parte dell’Atlantico viene venduto a 199 Dollari, varcato l’Oceano inizi a costare fino a 4 volte l’originale, ma questa è una situazione ormai vecchia che, purtroppo, con il crollo del Dollaro si è paradossalmente acuita, grazie alla gestione dei prezzi da parte delle aziende di elettronica di consumo che, in questo modo, recuperano in Europa i ricavi perduti altrove vendendo sottocosto.

Non si capisce, al contrario, la reazione in valore assoluto rispetto al prezzo dell’iPhone: si tratta di uno smartphone paragonabile a molti altri sul mercato, che paradossalmente presentano spesso prezzi decisamente superiori. Forse dimentichiamo il prezzo al debutto dei Nokia di fascia alta o della maggior parte dei modelli HTC: bei terminali, che hanno qualche funzione in più e qualcuna in meno dell’iPhone, ma che appena arrivati sul mercato hanno prezzi per il cliente finale decisamente alti.

Si sente spesso dire che l’iPhone vorrebbe rappresentare al tempo stesso un terminale di alto livello, ma anche la connettività in movimento per i neofiti; che dovrebbe essere una piattaforma solida per un uso business, ma anche l’evoluzione multimediale del cellulare come lo abbiamo sempre conosciuto. Si sente dire di tutto, persino che sia usato in Paesi come l’Italia come specchietto per le allodole da parte degli operatori mobili alle prese con un mercato che non tira più come un tempo.

L’unica cosa che non si dice è che l’iPhone 3G non è un handset per tutti, così come un prototipo di un’auto da corsa non è un prodotto per le masse: i suoi emuli, probabilmente, lo saranno. Non siamo più ai tempi del claudicante iPhone prima maniera: l’iPhone 3G riesce davvero a restituire una nuova mobilità, che l’Edge del suo antenato non poteva garantire. Più maneggevole di un UmPC e più affidabile di un palmare simil-Palm, l’iPhone ha un prezzo ragionevole per ciò che è davvero: un PC da tasca.

Google Android e il concorso impossibile (per gli italiani)

Con il lancio della piattaforma Android si può dire che Google abbia ancora una volta sparigliato un mercato importante, ma non suo: come era avvenuto con l’intermediazione pubblicitaria (vedi il sistema AdSense & AdWords), con lo sviluppo software (vedi Google Web Toolkit) o con la condivisione di contenuti multimediali (vedi Google Video e YouTube), ha lanciato il guanto di sfida ad un settore diverso da quelli in cui ormai è leader consolidata, sicura di diventarlo presto anche in questo. L’approccio, bisogna dire, stavolta è molto aperto: Android vuole diventare lo standard di settore in termini di sistemi operativi per sistemi mobile e per arrivare a questo fine Google ha fatto la saggia scelta di allearsi con i protagonisti del mercato verticale, piuttosto che sviluppare tutto in casa, sotto il proprio marchio.

Tutti sanno, d’altronde, che il redditizio mondo della comunicazione via cellulare riesce a regalare soldi e gloria ad una messe di soggetti diversi: dai produttori di terminali agli operatori telefonici, dai gestori di servizi VAS ai creatori di software. Google cerca di mettere d’accordo tutti, proponendo di alzare l’asticella collettiva: i terminali che vorranno utilizzare le opportunità aperte da Android, ad esempio, dovranno essere obbligatoriamente dotati di videocamera, Wi-fi e GPS.  I produttori di hardware più smart hanno capito l’antifona e si sono adeguati: esclusi Nokia e SonyEricsson, troppo intenti a cercare di imporre i propri standard, tutti i maggiori player del settore hanno annunciato la propria adesione allo sviluppo della piattaforma.

Non fare parte della congrega, d’altra parte, implicherebbe anche l’essere estromessi dall’enorme fascio di luce (più che positivo) che i media stanno puntando sull’iniziativa. Google ha saputo prima alimentare la crescita delle attese sul tanto citato GPhone, concorrente naturale dell’iPhone di Apple; poi ha svelato di non voler entrare direttamente nell’agone, scegliendo una strada diametralmente opposta a quella di Microsoft, che nel frattempo investe soldi e tempo per sviluppare il mondo proprietario di Windows Mobile. Gli sviluppatori vivono così le possibilità aperte dalla piattaforma in maniera decisamente più passionale: Android si basa su tecnologie come Linux e Java ed avrà uno sviluppo open source.

La saggia idea di lanciare premi per un totale di 10 milioni di dollari, poi, ha definitivamente acceso l’entusiasmo internazionale; ne rimane preoccupantemente fuori l’Italia, terra in cui i concorsi ad ampio budget vengono gestiti in maniera un po’ troppo monopolistica da parte dello Stato. Mentre c’è chi, come Stefano Quintarelli, offre di finanziare aziende innovative da trapiantare in terra estera, la Rete discute ferventemente sulle ricadute della nuova trovata della grande G. Ancora una volta, un buon colpo di immagine per Google, in cambio di una manciata di milioni di dollari: noccioline, per l’azienda che ha cambiato il mondo ed ora ha intenzione di cambiare anche noi e il nostro modo di comunicare. E ci riuscirà.

Unified Communications, il tormentone che turberà le vostre notti

Se è vero che le indicazioni di Gartner sono il verbo supremo di ogni manager ICT sparso per l’Occidente (nel resto del mondo tale preponderanza andrebbe verificata), possiamo stare tranquilli che il tema “Unified Communications” diventerà il tormentone collettivo nelle aziende medio-grandi nei prossimi mesi. Già da qualche anno gli analisti di questa società pubblicano report in cui posizionano in un «Magic Quadrant» i principali competitor nella creazione di soluzioni complete in questo ambito: uno scenario che cambia periodicamente e che negli ultimi mesi ha visto attori tradizionalmente forti nel mondo delle telecomunicazioni (basti citare Cisco o Ericsson) finire nel campo dei «challengers» a favore di nuovi «leaders», capitanati al momento da Microsoft.

Quest’ultima società, in effetti, ha dei piani aggressivi ed una visione integrata utile per conquistare questo promettente mercato: non punta a sostituire le reti telefoniche esistenti con soluzioni VoIP (strategia spesso seguita dai concorrenti), ma cerca di virtualizzare il collegamento tra tecnologie differenti (telefono fisso, mobile, e-mail, segreteria telefonica, IM, videoconferenza, etcetera) apponendovi sopra un ampio strato software che è progressivamente integrato a monte con i sistemi informativi aziendali ed è comodamente omogeneizzato a valle con le interfacce care all’utente finale (Microsoft Office in primis). Le campagne pubblicitarie del gigante di Redmond sulla stampa specializzata sono già partite: non è difficile immaginare grandi investimenti per tutto il 2008.

L’unico concorrente che al momento sembra aver accettato la sfida a livello globale è IBM, che ha scelto una via meno proprietaria di quella Microsoft: da un lato ha infatti siglato un’alleanza a 360° con Cisco (integrando le applicazioni e le tecnologie di quest’ultima nella propria offerta), dall’altro ha lanciato la piattaforma UC² (Unified Communications and Collaboration), basata su standard aperti ed ampliabile a piacere anche da parte di attori terzi grazie ad un sistema di interfacce sia a livello applicativo (vedi Lotus Sametime e dintorni), sia infrastrutturale (alias sistemi e servizi, sia voce che video, di Cisco). Tuttavia, se IBM vola alto, Cisco non rinuncia alla sua origine di fornitore di hardware e perciò pone al centro dello sviluppo dei suoi piani di business la presenza di reti e telefoni proprietari.

Ci aspettano mesi intensi, insomma. I professionisti del settore si stanno spingendo in scenari avvincenti, sebbene verosimili solo nel lungo termine: c’è persino chi, nelle ultime settimane, ha parlato di «morte dell’hardware». Nell’ambito di questa lotta tra giganti alla ricerca dell’eldorado della riduzione di costi a tutti i costi, prima o poi anche gli attori più piccoli dovranno scegliere una strada: molti guardano a Skype e si aspettano una presa di posizione chiara, vista la posizione preminente nell’ambito del mercato VoIP ma del tutto debole in quello aziendale. Persino lo strano annuncio della partnership tra Skype e 3 di oggi assume una luce diversa se letto in un’ottica Unified Communications: che i manager (ICT e non) tengano gli occhi aperti, perché avranno tante possibilità di risparmiare, ma anche tante scelte difficili da fare.

Fring, il software di cui (e col quale) parleremo molto

Negli ultimi anni, il concetto di “navigare col cellulare” si è progressivamente auto-legittimato, conquistando un’attenzione sensibile non solo da parte degli utenti business (pubblico elettivo di tutte le nuove tecnologie e di quelle a supporto della produttività individuale in particolare). Il simbolo di questa successiva trasformazione del nostro modo di essere sempre on line è sicuramente stato Opera Mini, il browser in miniatura di Opera che, pur essendo gratuito, ha da sempre mostrato potenzialità decisamente interessanti rispetto ai programmi pre-installati a bordo dei terminali, anche di quelli più prestigiosi.

Fring a Friend!Una nuova rivoluzione è ora alle porte e in parte già avviata dagli utilizzatori più smart dei cellulari, quelli che non accettano supinamente gli improbabili costi della messaggistica ufficiale (15 cents di Euro ogni 160 caratteri, sigh) e soprattutto delle telefonate internazionali. Lo stesso motivo che aveva decretato il successo di Skype e dei suoi gemelli è infatti alla base del successo crescente di fring, il client VoIP per mobile che sta spopolando in particolare tra i numerosi utilizzatori di Nokia con Symbian a bordo. Chi non ricorda i commenti trionfali di Suzuki Maruti di qualche mese fa?

Le mille possibilità di comunicazione attraverso fringFring non può non piacere: interfaccia semplice, interazione seamless tra operazioni di uso quotidiano (MSN Messenger, Twitter, ICQ e mille altre attività con le quali ci dilettiamo abitualmente via PC) e sistema operativo, con ampio e crescente controllo della connettività, sempre nell’ottica del risparmio: il software cerca automaticamente la connessione meno costosa (tipicamente wi-fi) e gestisce l’auto-roaming con le reti tradizionali, garantendo una buona qualità soprattutto nelle conversazioni tra fringsters.

L’unico dubbio che turba un po’ gli utenti, al momento, non riguarda le caratteristiche tecniche ma il modello di business dello strumento, domanda incubo per chiunque abbia visto le più promettenti dot-com di inizio secolo collassare sotto i debiti. La nota di merito va invece alla presenza di fring in Italia, curata da Hagakure ed in particolare al lavoro di Federica Dardi, che con abnegazione e professionalità sta sostenendo la diffusione del buon software anche nel nostro Paese. Prossimo passo atteso: il sito di fring in più lingue, italiano in primis, per far avvicinare allo strumento anche persone meno sensibili agli aspetti tecnologici ma comunque amanti di telefonia cellulare e dintorni (leggi: il 95% degli italiani).