Gli affluent hanno abbandonato la TV

Insultare Elsa Fornero è diventato lo sport preferito di chi ha più di 50 anni, in particolare di chi si è visto allungare di svariati anni l’età in cui potrà andare in pensione. Ormai ogni sua dichiarazione viene passata ai raggi X, smontata e analizzata nei talk show, nei bar e sui blog. Qualche mese fa era stata tirata sulla graticola quando, lamentandosi dell’immagine della donna in TV, aveva ipotizzato che fosse «più salutare» spegnerla. In particolare Giovanna Cosenza era andata giù pesante, lamentandosi dell’atteggiamento diffuso di rifiuto verso la TV.

Un atteggiamento che la professoressa bolognese attribuiva a «una certa élite intellettuale e sociale, ricca di beni culturali e/o materiali» e che in effetti molti di noi possono riconoscere come proprio e vedere nei propri pari; qualcuno conosce un top manager che la guarda ancora? Molti di noi il televisore in casa non ce l’hanno nemmeno; molti di noi passano tante ore davanti a notebook, tablet e smartphone (a letto e non) e sono talmente sommersi dalle informazioni che la TV è del tutto superflua. Che senso ha guardare il TG che dà notizie vecchie di ore?

Dal punto di vista dell’intrattenimento, non è che i palinsesti offrano materiale imperdibile: tanto sport, poco cinema; tanti talent show, poca musica di qualità. Il risultato è che gli affluent scappano; anzi, non fanno più il gesto banale di accendere la TV al ritorno a casa. Il crollo verticale degli investimenti pubblicitari riguarda tutti i media ma ormai anche la televisione; da un lato l’offerta agli inserzionisti è diventata enorme, col moltiplicarsi di canali specializzati e generalisti, dall’altro i target commercialmente interessanti sono sempre meno intercettabili.

Già i metodi di rilevazione degli ascolti sulle nicchie sono poco credibili; quale inserzionista vorrà approfittare dei listini sempre più scontati che gli account delle concessionarie stanno proponendo? Certo rimane la pubblicità dei detersivi e del dado da brodo, ma difficilmente gli investitori più pregiati continueranno a trovare interessanti le programmazioni “mass market” dei canali, non solo generalisti. E considerando che ormai le riviste non le legge più nessuno e che il Web è ancora un canale limitato, il dubbio rimane: come è possibile comunicare con gli affluent?

Torte monumentali e torri d’avorio

Sono tante e molto, molto, diverse, le tradizioni dolciarie europee. Cambiano gli ingredienti e le ricette, spesso legati a peculiarità del territorio o del clima; cambiano inevitabilmente, nello spazio ma anche nel tempo, i gusti di chi acquista i dolci (e di chi li produce). È vero che l’arte pasticciera è parte del patrimonio culinario di ogni Paese e quindi rispetto alle altre le scuole italiana e francese brillano in parallelo con l’alta cucina, ma ogni dolciume è un misto di ricordi e storia, anche quando di modesta fattura.

E poi c’è la pasticceria all’americana: appariscente, ultra-dolce, a suo modo bella da vedere. Un mondo che fino a pochi anni fa era completamente separato da quello europeo, con i contatti limitati a qualche ricetta di coloratissimi cupcake a passare l’Atlantico. Il grande colpo di scena, ciò che ha improvvisamente miscelato e travolto le barriere, stavolta non deriva dalla Rete, ma dalla televisione: basta dire “Boss delle torte” per richiamare alla memoria anche dei meno esperti un intero mondo di “monumenti” dolci.

Internet è poi arrivata ad amplificare il fenomeno, ma la trasmissione di Buddy Valastro è stata la chiave di volta di una vera e propria trasformazione nei desiderata di mamme e papà intenti a scegliere (o magari produrre) i dolci per i compleanni dei figli o per gli altri eventi familiari: si è passati nel giro di pochi anni dai classici europei, magari con qualche statuina di marzapane sopra, a vere e proprie costruzioni di cioccolato plastico, pasta di zucchero e marshmallow fondant, magari con qualche base di polistirolo.

Elisia Menduni ha raccolto le grida di dolore del gotha dell’alta pasticceria italiana, scatenando un dibattito tra professionisti e fan delle torte-monstre, che difendono quella che per alcune persone da passione si è trasformata in professione, sebbene (almeno secondo i pasticcieri “ufficiali”) senza gli standard sanitari e di qualità richiesti a materiali belli ma (almeno teoricamente) edibili. Il sapore della difesa corporativa un po’ si sente ed è stupido ignorare che la domanda di dolciumi sia cambiata, probabilmente per sempre.

D’altronde, è un peccato pensare di buttare secoli di tradizione e lasciare che la forza congiunta di televisione e Web convinca i/le dilettanti allo sbaraglio di costituire l’unica offerta possibile. Quindi la responsabilità di rilanciare la tradizione europea coniugandola con le nuove richieste della clientela è del tutto a carico dei pasticcieri; la leva di marketing della qualità dei prodotti sarà sicuramente apprezzata, ma non potrà essere la solita giustificazione per i prezzi alle stelle e un ulteriore chiusura nella torre d’avorio dell’alta gamma.

MTV e il peso culturale dell’1% di share

MTV entra nell’Auditel e, incredibile a dirsi, emerge che il suo ascolto giornaliero è nell’ordine dell’1% di share sul totale e del 2/3% nel target storico, quello 15-34 anni. L’avreste mai detto? Com’è possibile che una TV che crea personaggi come Biggio e Mandelli, che organizza interi week-end di concerti in giro per l’Italia e che attrae investimenti pubblicitari da tutti i principali investitori possa poi avere dei risultati numericamente così modesti?

Il successo iniziale del canale nel nostro Paese fu merito di Antonio Campo Dall’Orto, che riuscì a creare un’identità di qualità, spinto dalla necessità di combattere prima e assorbire poi la nostrana Videomusic. Poi negli ultimi anni il canale si è progressivamente allineato all’identità internazionale, di matrice spiccatamente statunitense: sempre meno video musicali, sempre più reality show, telefilm adolescenziali e programmi umoristico-demenziali.

L’effetto di questa progressiva trasformazione/assimilazione è stato il portare in Italia, come in precedenza successo in altri Paesi europei, modelli di comportamento inconfondibili: ragazzine sedicenni incinta seguite passo passo dalle telecamere, studenti che desiderano diventare “popolari” (termine oggi diffusissimo tra gli studenti italiani, un tempo sconosciuto), adolescenti che sognano di diventare miss nonostante l’obesità. Negli USA volere è potere.

I mashup culturali sono dietro l’angolo: qualche giorno fa su Trendhunter.com modelli come questo, creati da Dsquared² e presentati alla Fashion Week di Milano, sono stati definiti «old Italian style». Ovviamente qualsiasi italiano che conosca lo stile dell’alta moda rabbrividirebbe per questo accostamento, ma il riferimento è ai «Guido», gli italo-americani resi noti da Jersey Shore, il più celebre show di tutti i canali MTV in giro per il mondo, Italia compresa.

Qualche mese fa il cast di Jersey Shore ha vissuto a Firenze, con ampia copertura della stampa italiana e una costante presenza nella programmazione televisiva di MTV Italia. Ormai in Italia chiunque abbia un minimo di infarinatura “pop” li conosce e riconosce gli influssi di questo programma su linguaggi, abbigliamento e abitudini dei più giovani (e non solo). Eppure è una trasmissione di un canale che non fa nemmeno l’1% di share, molto meno di una Rete4 o di una La7.

Chissà quali sono i veri ascolti televisivi

Sarebbe bello che, utilizzando i social network, dedicati come Miso o generalisti come i più grandi, gli spettatori di tutto il mondo potessero segnalare in primis l’ascolto di una trasmissione televisiva, poi eventualmente anche il proprio livello di gradimento. E invece no. In tutti i Paesi, industrializzati e non, l’audience viene ancora misurata con metodi arcaici.

Un tempo i vincoli erano soprattutto tecnologici, basti pensare ai “diari” della Nielsen Company a cavallo della II° guerra mondiale; poi diventarono soprattutto economici, visto che installazione, rotazione e monitoraggio dei meters installati nelle case ed elaborazione della mole di dati raccolti sono attività costose e quindi necessariamente limitate nel campione.

È così ancora oggi l’Auditel di turno in ogni Paese sforna dati su panel limitatissimi che però diventano il principale mezzo decisionale del management di ogni network televisivo. In qualsiasi altra industry un simile meccanismo verrebbe deriso: i dati di vendita sono diretti e rilevati in tempo reale, quando mancano le indagini di mercato sono molto più precise.

Il meccanismo funziona probabilmente sui grandi ascolti, quelli che si potrebbero quasi definire a priori: eventi sportivi di livello internazionale, da show musicali, qualche fiction dal budget importante. Ma è poco credibile in un mondo in cui l’ascolto si frammenta tra canali super-specializzati, in time shift, fruiti via TV ma anche via PC, tablet, smartphone.

Le nicchie culturali di élite si compattano solo su eventi catalizzatori, ma per definizione seguiranno sempre più percorsi molto specializzati, che un campione di poche migliaia di famiglie, specie in Paesi geograficamente disomogenei come la Francia o l’Italia, non riuscirà mai a catturare. La bufala diventerà sempre più evidente e non basterà qualche piccola multa.

Il Sanremo del terribile sospetto

Nel 2010 il Festival di Sanremo era sembrato uno specchio della realtà italiana, con gli orchestrali che strappavano gli spartiti e gli operai Fiat di Termini Imerese che reclamavano attenzione; nel 2011 il team di Morandi era ben assortito e in qualche modo la qualità della canzone di Vecchioni aveva rotto il piccolo incantesimo che nel biennio aveva portato i cantanti sardi di Maria De Filippi a vincere, relegando Emma Marrone al secondo posto.

Quest’anno sarebbe stato facile procedere sullo stesso solco, ma la voglia di cambiamento di Mazzi e Morandi ha creato più danni alla manifestazione che vantaggi agli spettatori. La terribile modella versione jena ridens ha fatto rimpiangere persino Rodriguez e Canalis dell’anno scorso, non a caso richiamate last minute e diventate protagoniste delle cronache; interventi comici imbarazzanti hanno fatto ripensare a Luca e Paolo, anch’essi ri-tirati fuori ad hoc.

L’aspettativa irrealistica nei confronti del Festival di Sanremo 2012 probabilmente non era tanto un alto profilo in termini di spettacolo, quanto che l’evento diventasse il sigillo culturale a un’Italia improvvisamente cambiata, che comunicasse a noi stessi e al mondo esterno quanto la “cura Monti” stesse cambiando in profondità il nostro modo di affrontare il mondo. Ma ora che è finito, il terribile sospetto è che noi Italiani si sia sempre gli stessi, fino in fondo.

Per usare le espressioni di Luca, si è visto piuttosto solo come sia stato sancito il «dominio televisivo, guardando schifati programmi tv considerati spazzatura e farne la critica/cronaca su Twitter», visto che il dibattito pubblico non è stato certo diverso nei bar o sui social network: tutto incentrato sulle polemichette di Celentano, sulle provocazioni di Belen, sulle papere di Morandi. Il programma televisivo sarebbe potuto andare in onda 5 anni fa, senza differenze.

Nel segno della continuità, Gianmarco Mazzi che ha visto vincere 3 volte (più un secondo posto) gli Amici di Maria De Filippi, andrà a collaborare proprio con quella trasmissione. Gli altri protagonisti del Festival si spenderanno la notorietà raggiunta, primo tra tutti Papaleo che dopo essere stato per qualche mese l’idolo dei radical chic ha voluto con questo Festival rimarcare le sue origini più “pop”. Rimarrà qualche canzone nelle radio, pur se mediocre.

Probabilmente il prossimo Festival di Sanremo, nel 2013, sarà a ridosso della chiusura della Legislatura e delle nuove Elezioni politiche. Non è difficile immaginare che i germi culturali così forti negli ultimi lustri, apparentemente sopiti nell’edizione di Sanremo dello scorso anno e pian piano tornati a galla in questo, nel frattempo avranno riconquistato tutta la loro forza. Altro che quel cattivone di Monti, meglio andare appresso ai pifferai magici della TV.

Lo strano rapporto tra Italiani e informazione televisiva

Il XXXIII Osservatorio sul capitale Sociale di Demos focalizza la propria attenzione sul rapporto tra Italiani e informazione. I dati sono interessanti soprattutto perché includono un minimo di prospettiva storica, permettendo di ragionare sull’evoluzione dei consumi informativi dal 2007 a oggi. Sorvolando sull’esiguità del campione (appena 1.301 intervistati), la ricerca conferma prima di tutto la forte frequenza di utilizzo della Televisione come fonte informativa quotidiana. Per ben l’83,6% la TV è il canale di riferimento, che cuba quasi 2 volte e mezzo Internet e Radio, 3 volte i quotidiani.

Ma è appunto il dato storico a incuriosire: mentre i valori di TV, radio e quotidiani sono tutti in calo di 3-4 punti tra 2007 e 2011, Internet si staglia aumentando del 50% di preferenze nel periodo, passando dal 24,8% al 37,8% delle citazioni. Un valore quantitativo che però non è l’unico asse di analisi interessante: la Rete viene infatti oggi citata da oltre il 40% degli intervistati come principale canale per avere un’informazione «libera e indipendente», circa il doppio della TV. Un atto di fiducia notevole, forse sopravvalutato, ma probabilmente scevro dall’effetto-Wikileaks degli scorsi mesi.

Le valutazioni qualitative sono sorprendenti sopratutto parlando di televisione. La credibilità di tutti i telegiornali nazionali, a parte quella di La7 e Rai News24, è in caduta libera; questo farebbe presupporre un atteggiamento maturo degli spettatori che premiano servizi informativi che cercano di puntare sulla qualità pur avendo (almeno nella percezione del campione) una connotazione politica verso centrosinistra. Sensazione probabilmente comune a Ballarò e Report, i programmi che ottengono il miglior rating in termini di fiducia (anche se il primo è in calo e il secondo in crescita).

Ma la stranezza implicita nella ricerca non è solo in questa identità tra qualità dell’informazione e voto a sinistra dei giornalisti; è anche e soprattutto nella netta preferenza per Striscia la notizia, che mette d’accordo circa 2 italiani su 3 come programma nel quale aver fiducia, seppur di taglio comico. Il “TG” di Ricci sembra avere una credibilità illimitata su tutti i potenziali spettatori, indipendentemente dal loro colore politico; molti gli riconoscono la dignità di servizio pubblico e appunto una significativa capacità di indipendenza. Forse non fa ridere più nessuno, ma è ritenuto utile (d)a tutti.

Tra factual entertainment e disastri naturali

Il successo televisivo di Real Time sul Digitale terrestre è ormai un dato di fatto. In estate il canale principe del factual entertainment ha toccato punte del 3% dell’Auditel, superando reti ben più blasonate quali La7 e talvolta equiparando l’ascolto totale di decine di canali free. Un successo dovuto probabilmente al contenuto “familiare” dei programmi e allo stile non gridato dei conduttori.

Il canale è prodotto da Discovery Networks Western Europe, società che negli anni ha saputo affiancare all’ingombrante Discovery Channel una serie di contenuti specifici per ogni piattaforma, vista la presenza su Sky e Mediaset Premium oltre che sul DTT. Proprio quest’ultima piattaforma sembra costituire la sfida più difficile, vista l’assenza di abbonamenti e la necessità di vendere pubblicità.

La nuova risposta, che nei piani dell’emittente dovrebbe costituire l’alternativa maschile al più femminile Real Time, è Dmax, lanciato qualche giorno fa con una programmazione interamente basata sulla library internazionale di Discovery, con particolare attenzione a motori, catastrofi naturali, crime e altre amenità che i produttori ritengono adatte al pubblico maschile adulto, over-30.

Un assaggio della programmazione iniziale di Dmax in Italia

La scelta dei contenuti è raccapricciante, in tutti i sensi. Gli uomini vengono immaginati come spettatori perversi di tutto ciò che è borderline, esplosioni violente od omicidi seriali poco importa. Una scelta che stride profondamente coi toni pacati di Real Time, che contrariamente alle aspettative dei produttori ha coinvolto negli anni un pubblico maschile evidentemente meno maniaco.

Si dirà che l’altro canale espressamente dedicato allo stesso target, Italia2, presenti spesso contenuti simili, siano essi monster truck o documentari estremi. Eppure, la programmazione della rete Mediaset sembra più equilibrata, con cartoni, videoclip e programmi comici a intramezzare gare di wrestling e film dell’orrore. Su Dmax invece non ci sarà nulla di tutto ciò, solo tensione a go go.

Ci sono alternative più sobrie, quali Rai5, che però falliscono nel coinvolgimento dell’utente e spesso si risolvono in un approccio opposto, troppo sonnolento e poco attento al contemporaneo. In qualche modo, per ora sembrano migliori i canali “femminili” quali La5 o La7d o appunto Real Time; nessuno sembra aver trovato il giusto mix che equilibri divertimento e interessi per gli uomini.

Gli effetti di CSI sulla vita reale

L'Europa ha accolto con notevole entusiasmo l'ondata di produzioni televisive che, da una decina di anni, hanno invaso le televisioni di tutto il mondo: da CSI in poi, un numero imprecisato di telefilm ispirati al mondo della medicina forense ha costituito probabilmente il principale filone di fiction di questi anni. Non a caso, il primo impatto di questo successo globale è stato l'avvio di produzioni europee dello stesso tipo, tanto per amplificare ulteriormente il fenomeno.

Ma gli effetti di queste serie vanno ormai molto al di là dell'entertainment. CSI e le serie figlie/sorelle han cambiato la vita di poliziotti, giudici, medici, avvocati, persino di ladri e assassini. Come un enorme manuale che si dipana di settimana in settimana, lo svolgersi delle puntate del serial statunitense ha insegnato ai criminali come evitare di lasciare tracce, ha reso cool anatomopatologi e coroner, ha illuso i giurati nei processi che la scienza spieghi sempre le scene del crimine.

Gli esperti di comunicazione scientifica parlano ormai di un vero e proprio "Effetto CSI", una riedizione moderna del Perry Mason Effect che 50 anni fa ha iniziato a modificare la percezione della giustizia negli Stati Uniti. Oggi i ragazzini amano guardare CSI all'ora di cena, poi magari sogneranno di diventare bravi consulenti medico-legali come i protagonisti dei telefilm. Sarebbe interessante vedere le loro facce il giorno in cui si troveranno davanti al primo cadavere caldo.

Negli scorsi giorni i giornali di tutto il mondo hanno segnalato l'apertura della mostra CSI: the experience a New York, che permette ai visitatori di simulare le indagini scientifiche post-delitto tipiche della serie televisiva. Sicuramente sarà un successone, come tutto il resto dei prodotti derivati dalla serie madre. La grande curiosità collettiva è invece per gli anni a venire: quanto durerà ancora la "moda"? Nuove serie si affiancheranno o il fenomeno andrà a morire?

Sissi reloaded

I dati di ascolto estivi delle principali reti televisive sono proporzionalmente simili a quelli degli altri periodi dell’anno, ma abbastanza ridicoli in valore assoluto. Gli Italiani scappano dal televisore e d’altra parte le reti non si sforzano tanto per trattenerli, in un circolo vizioso per cui meno si spende meno spettatori si hanno, così si spende poco (ad libitum).

Repliche a qualsiasi ora del giorno e della notte, ma finalmente anche qualche film in prima serata. Pochi e vecchi per la maggior parte: capita ad esempio di veder programmate le repliche dei film di Sissi ogni sabato sera su RaiUno e poi prime visioni a notte fonda sullo stesso canale, con ovvi successi delle prime a scapito dei pellegrini nottambuli.

PPare che la rete ammiraglia Rai stia modificando anche la programmazione dei sabati successivi, togliendo dal cartellone i tipici film indiani che trasmetteva negli anni precedenti e cercando di mettere più film Sissi-like: sulla principale rete concorrente fioccano le repliche di trasmissioni con Paolo Bonolis e il suo clan, non serve aver troppa fantasia.

Già i cinefili sono costretti a guardare su Rai Movie o Iris repliche frequenti e a distanza di pochi giorni l’una dall’altra: almeno dalle due-tre reti principali ci si aspetterebbe un po’ di coraggio in più. Persino programmi di ieri come Giochi senza frontiere sembrano irraggiungibili, persino le peggiori produzioni “invernali” di oggi sono un miraggio.

A vincere sono sempre più le reti satellitari, che in queste settimane di caldo asfissiante mantengono una programmazione ai limiti della decenza e riescono ad attrarre chi preferisce o è costretto a rimanere a casa a guardare la TV. Per chi non può permettersele, c’è Sissi a fare compagnia, come un filmino casalingo di altri tempi, rovinato dall’uso.

Il valzer eterno

Omnitel e Infostrada erano nate come costole di un’Olivetti febbricitante, con grandi campagne pubblicitarie e una spinta amichevole da parte delle Società del Gruppo L’Espresso nel presentarle al grande pubblico come le prime vere alternative ai monopoli del Gruppo Telecom Italia. Esattamente l’azionista che poi, sotto la guida di Colannino, avrebbe preso a breve la proprietà di Olivetti e dismesso le società “in verde” per ovvi motivi di libera concorrenza.

Nel frattempo, sempre il Gruppo Telecom Italia elaborava fantasiose sinergie tra tutte le sue attività, concentrando in Seat Pagine Gialle attività eterogenee come ISP, TV, directory, cancelleria. Il passaggio a Telecom Italia Media aveva permesso di razionalizzare un po’ le attività, tra cui MTV Italia, il cui marchio era arrivato in Italia su Rete A, lo stesso canale che negli anni successivi è stato comprato dal Gruppo L’Espresso per diventare Deejay TV.

Così come MTV Italia aveva preso il posto di Videomusic, anche l’altro canale, TMC divenuta poi La7, derivava dall’acquisizione delle attività dal Gruppo Cecchi Gori. L’altra attività televisiva di Telecom Italia, Stream, è andata a farsi benedire confluendo in Sky. Con l’arrivo del satellite prima e del digitale terrestre poi, Telecom Italia Media ha lanciato ulteriori canali, anche se l’audience complessiva è sempre stata minima rispetto ai grandi gruppi televisivi.

Ora si parla di un possibile ingresso del Gruppo L’Espresso nel capitale Telecom Italia Media, per realizzare un polo televisivo con tre canali sull’LCN (La7 è il canale 7 del digitale terrestre, MTV l’ottavo, Deejay TV il nono), alla pari di Rai e Mediaset (ma si parla di una razionalizzazione con cessione di frequenze a Sky/Cielo) e soprattutto con una squadra di conduttori importanti, per la maggior parte di identità politica simile a quella di De Benedetti.

Sarebbe l’ennesimo passaggio di un valzer eterno che negli anni ha visto semi-immobili Rai e Mediaset/Mondadori ma ha visto turbinare il resto del mondo editoriale/Telco. Un polo Telecom Italia Media/L’Espresso/Sky, in tutte le possibili configurazioni alternative, sarebbe l’unico a poter concentrare sufficiente competenze e forza politica per costruire un player significativo in ambito televisivo. Poi l’audience verrà, qualificatissima o di massa, ma arriverà.