I link sono utili, ma non sono tutto

Capita di vedere la seguente citazione ormai un po’ ovunque sul Web

«If you can’t imagine anyone linking to what you’re about to write, don’t write it»

attribuita di volta in volta a Clay Shirky e/o Jeff Jarvis. Due nomi pesanti dell’immaginario Internettiano contemporaneo, in effetti legati in un articolo del Guardian che racconta la visione del primo e raccoglie la frase di cui sopra, che Shirky attribuisce al secondo. Frase che appunto viene citata, ma che estrapolata dal contesto complessivo dell’articolo può dare adito a interpretazioni un po’ estremistiche.

La realtà è che, ancora oggi, vale scrivere qualcosa che non sia immediatamente linkabile. Non è detto che tutto debba essere necessariamente pubblico, digitale e soprattutto scritto. E non si parla solo di dichiarazioni d’amore che, in qualche modo, possono rientrare bene in questa categorizzazione: ci si riferisce anche a documentazione scientifica, economica e spesso anche più prosaicamente business-related.

Sebbene il glorioso Pagerank di Google ci abbia agevolato la vita nel corso degli anni, ha fatto sì che, soprattutto tra noi blogger, il concetto di link-come-funzione-del-valore-del-testo ha raggiunto livelli preoccupanti. Al contrario, i motori di ricerca dovrebbero aiutarci a ricercare proprio tra le informazioni più nascoste, ma magari preziosissime. Quante notizie che potrebbero esserci utili sono sepolte in qualche pagina nascosta e remota?

Basti guardare al mondo dei tumblelog per capire che la costante aspirazione di molti è linkare il più possibile i contenuti più popolari, al fine forse di ricevere un giorno dei preziosi link che facciano scalare le posizioni sulle varie classifiche. Qualche mese fa Axell si era lamentato di questa tendenza suicida, ricevendo per la maggior parte reazioni ironiche o sdegnate. Peccato che, nel frattempo, il fenomeno sia notevolmente peggiorato.

I problemi di WordPress e le rivoluzioni rimandate

I lettori abituali di commEurope avranno notato misteriosi ritardi nella pubblicazione dei post da settembre in poi: il “merito” è degli aggionamenti di WordPress, che non solo presentano ogni volta impatti deliranti sugli archivi (vedi la vendetta delle lettere accentate), ma soprattutto comportano una serie di ritardi per cui alla fine si decide di rischiare e lasciare on line una versione più vecchia e perciò per definizione ricca di bug.

Il punto è che un blog dev’essere solo (per quanto culturalmente stimolante, ci mancherebbe) un passatempo. Siamo tutti consci di star vivendo una rivoluzione nei flussi di comunicazione peer-to-peer o bottom-up, ma dobbiamo anche renderci conto di essere delle mosche alle prese con una carta adesiva. Terribilmente attraente, ma dai rischi mortali per quanto riguarda la vita del blogger che le vola incontro.

Se si è giornalisti professionisti, non solo si è più bravi a scrivere, ma si ha anche un certo rapporto con tempi e modi della scrittura. Se si è blogger amatoriali, il rapporto è più complesso: perché i tempi non sono quelli della propria professione e la cura degli strumenti di supporto non è a carico di altri. Un giornalista deve concentrarsi sulla qualità del proprio intervento, il blogger deve mantenere la tipografia virtuale e poi vestirsi da editore prima ancora che da autore.

Tutto ciò fa sì che i giornalisti professionisti possano stare tranquilli: abbiamo ancora molto bisogno del loro tempo passato a documentarsi, dedicato alla scrittura e poi passato, magari, a difendere le proprie opinioni di fronte ai lettori inferociti. Se poi per farlo usano un blog, tanto meglio per loro e per i giornali che rappresentano: sia onore ad Alessandro Gilioli, ad esempio, che è riuscito a creare uno spazio di qualità per diffondere i propri articoli e confrontarsi coi lettori.

Ne parliamo tra qualche anno, insomma. Quando l’infrastruttura sarà trasparente e non richiederà tempo per manutenzione e aggiornamenti, quando i blog saranno uno strumento professionalmente riconosciuto e non una passione da seguire a notte fonda, quando avremo accesso alle fonti come avviene normalmente ai professionisti. Nel frattempo, un post alla settimana è più che sufficiente per mantenere attivo questo Speakers’ Corner personale.

La TV interattiva da Quizzy agli UGC

Luca Sofri pubblica un articolo cattivissimo sulla nascita di Rai4 ed in Rete parte il dibattito in merito all’idea di “televisione interattiva” che ha permeato il lancio ufficiale del nuovo canale. Niente di particolarmente innovativo, a dire il vero: Freccero pensa di lanciare una rete “per i giovani” e gli vengono in mente gli User generated contents. Pensa di proporli in salse diverse, anche se sembra finisca a fare una QOOB meno attraente sul target di destinazione.

Il primo autore illustre a cogliere la palla al balzo è stato Michele Boroni, che ha crudelmente riportato alla nostra mente un ricordo che avevamo rimosso: si tratta del Quizzy, l’oggetto dei desideri televisivi di molti dei bambini di inizio anni Novanta. Per chi non lo ricordasse: era un gadget lanciato come “telecomando interattivo”, capace di interagire con i quiz delle reti Fininvest direttamente da casa. Il telespettatore giochicchiava coi tasti in locale, poi trasmetteva telefonicamente i propri dati via telefono ad un numero 144, sperando in premi che, a quanto si è saputo successivamente, erano abbastanza immaginari.

Al di là dell’aggeggio semi-truffaldino, però, la storia di Quizzy vale soprattutto come metafora della voglia di interattività che ormai da un paio di decenni le reti televisive europee cercano di sfruttare a proprio favore. Che si tratti di mettere lo spettatore dietro la telecamera in stile YouTube o che si aspettino ansiosamente gli SMS premium dei televoti, il messaggio è chiaro: pur con risultati frequentemente scarsi, si cerca di rispondere al crollo degli spettatori mettendo gli spettatori stessi al centro della scena.

Idea che, tutto sommato, si trovava anche nelle bellicose dichiarazioni di Mike Bongiorno ai tempi del lancio del Quizzy: le motivazioni per cui la televisione dovrebbe essere interattive sono oggi quelle le stesse di allora, ma le innovazioni continuano a languire. Al lancio del Quizzy, il popolare presentatore si lanciò addirittura nel celebrare l’assimilabilità dell’interattività televisiva con quella del voto elettorale, allarmando sociologhi attenti come Omar Calabrese. La tecnologia non ha assecondato quella similitudine tra televisore ed urna elettorale: la politica, invece, sì.

Blog – Commenti = Più tempo libero

La notizia del giorno sul Web italiano non è il compleanno del tumblelog Pollicinor (ci mancherebbe), quando il cambio radicale, in termini di piattaforma tecnologica ma soprattutto di modalità di gestione e di interfaccia, di Wittgenstein, il blog di Luca Sofri. Anche chi non fosse un fan del geniale filosofo austriaco non dovrebbe far fatica a riconoscere l’alta qualità dei post del giornalista televisivo: si tratta tipicamente di uno dei blog in cima alle classifiche nostrane stile BlogBabel e, una volta tanto, non è difficile domandarsi il perché.

La peculiarità di Wittgenstein, per chi non lo conoscesse, è l’essere uno dei pochi blog italiani (sicuramente il più noto) senza commenti abilitati. I suoi lettori più affezionati, nel tempo, si sono dovuti auto-organizzare: Mr. Oz ha fondato Commenstein, sitarello poco frequentato ma utile per capire cosa pensano i lettori del sito originale dei vari temi messi in gioco sul blog originale. Su questa iniziativa sono frequenti le leggende metropolitane: c’è chi spergiura che Sofri sia un lettore assiduo e chi sostiene che non voglia nemmeno sentir nominare il fratello minore.

La notiziona, ovviamente, ha ricevuto ampia eco sugli altri principali blog italiani. Le righe sino ad ora più commentate sembrerebbero quelle di Mantellini, con tanto di riavvio di una discussione basata sulle domande preferite dai blogger di tutto il mondo: “Cos’è un blog? Può definirsi blog un insieme di articoli senza ammenicoli quali trackback e commenti?”… Molti non si capacitano, infatti, della scelta di Sofri (confermata col nuovo template) di non raccogliere i commenti dei propri lettori: Wittgenstein viene spesso “declassato” a tumblelog, quando basterebbe rendersi conto che si tratta semplicemente di un blog “prima maniera”.

Per un vip come Sofri, non aprire i commenti vuol dire risparmiare tempo e problemi. Vuol dire evitare diffide per sciocchezze scritte da qualcuno nei commenti, ma soprattutto risparmiare l’immensa quantità di tempo necessaria per leggerli, spulciarli e moderarli. Sofri non raccoglierebbe le migliaia di commenti di Beppe Grillo o le centinaia di Gigi Buffon, ma si ritroverebbe nel circolo (vizioso o virtuoso?) dello “Scrivo un post, ricevo i commenti, scrivo un post sui commenti, ricevo nuovi commenti”, abitudine su cui da un lato personaggi come Zoro hanno fondato il proprio successo, ma rispetto alla quale figure più celebri come Linus continuano a incespicare abitualmente.

Pur continuando a domandarci dove i blogger trovino il tempo necessario per dispensare perle di saggezze kilometriche più volte al giorno, probabilmente non dovremmo sorprenderci del fatto che anche i più appassionati ormai preferiscano distribuire i propri pensieri attraverso Twitter e similari o appunto tramite tumblelog. C’è un patto diverso col lettore: io condivido con te i miei pensieri, ma non sono obbligato a leggere cosa tu possa pensarne, come avviene abitualmente coi blog. Un accordo tacito che probabilmente suonerà molto meno democratico rispetto ai blog “tradizionali” ma che, comunque, è un puro sollievo per chi nella vita fa anche altro oltre a bloggare.

Un anno di recensioni alberghiere su BlogHotel.it

Ognuno di noi ha progetti che risiedono nel cassetto per anni, che però un bel giorno riescono ad acquisire una propria dignità ed una propria vita autonoma: si scopre poi che il loro stare chiusi nel cassetto derivava dalla nostra ignavia, dal nostro destreggiarsi quotidiano tra mille priorità lavorative e non, mentre le idee valide sono sempre capaci di camminare da sole. E proprio a questa categoria ex-sogni-nel-cassetto-che-ormai-vivono-di-vita-propria appartiene BlogHotel.it, la piattaforma italiana gestita da blogger indipendenti, uniti da un fine nobile: recensire hotel di tutto il mondo, per condividere esperienze positive e negative.

L’idea di fondo è semplice: dedicare qualche minuto per raccontare ai lettori pregi e difetti della struttura di cui si è stati ospiti. Non ci sono particolari regole e qualsiasi lettore può diventare istantaneamente scrittore: non esistono lunghezze minime e massime nei testi, né censure sul loro contenuto. Gli unici post non accettati sono quelli inviati in maniera “fraudolenta” dagli albergatori stessi: se il fine è il dialogo, non è carino provare a pubblicizzarsi spacciandosi per normali utenti. Al contrario, se si vuole apparire su BlogHotel.it, la cosa migliore è invitare un blogger e aspettare con impazienza la sua recensione imparziale, come se fosse una roulette russa.

BlogHotel.it ha festeggiato negli scorsi giorni un anno di vita: sono state pubblicate circa una cinquantina di recensioni, relative soprattutto ad alberghi italiani. Un terzo delle recensioni riguarda Milano, ma non mancano crescenti bacini di recensioni su città di interesse turistico come Torino o Nizza. Variegate anche le categorie: la metà delle recensioni è relativa ad hotel a 4 stelle, ma non mancano, ad esempio, quelle relative ai 2 o ai 5 stelle. Visto che mancano vincoli geografici, si direbbe che al momento l’unica vera regola per partecipare è essere italiani. Il che, ovviamente, è un vincolo solo in quanto il presupposto di fondo è che si condivida un approccio simile in base alla propria appartenenza culturale.

BlogHotel.it, sembra giusto ricordarlo, è un progetto no profit e pubblicato con licenza Creative Commons: i recensori sono responsabili dei propri contenuti e non vengono pagati. Nonostante (o forse anche per) questo, negli ultimi mesi ci sono state diverse dimostrazioni di affetto: vengono in mente i link di Marco Tracinà o i messaggi di Enrica Garzilli, ma anche i post di Vittorio Pasteris, di Paolo Valdemarin o di Dario Salvelli. Ora, usciti dalla fase di rodaggio, si spera che si possano condividere sempre più recensioni: il gioco funzionerà sempre più man mano che il numero delle strutture recensite diventerà significativo. Nel frattempo: grazie a chi ha scritto (pochi ma ottimi) ed a chi ha letto (tanti ma anonimi).

La blogizzazione dei giornali miete vittime

Questa è una storiella dedicata ai lettori di .commEurope abitanti nel mondo reale e non nella blogosfera (alias la maggior parte): è quella del blogger italiano Paul The Wine Guy che, pur avendo iniziato a curare il suo blog da pochi mesi, è riuscito a ottenere una grande notorietà tramite iniziative originali e innovative. Qualche esempio? Il Blogstar Deathmatch, perfetto per attirare l’attenzione delle vedette nostrane, oppure 7 giorni senza Google, utile per guadagnarsi la simpatia di tuti gli altri blogger Google-dipendenti (alias la maggior parte). Ultima idea originale: la serie Understanding Art for Geeks, pubblicata periodicamente sul suo blog e poi sistematizzata su Flickr.

'The Thinker' di Auguste Rodin nella versione di Paul The Wine GuyUn’ulteriore occasione per ricevere grande attenzione, soprattutto nel mondo dei tumblelog nostrani, ansiosi ogni volta di pubblicare le nuove puntate della serie. Arriviamo infatti ai giorni nostri: l’idea di utilizzare le opere più celebri della storia dell’arte e “personalizzarle” ad uso e consumo dei geek di tutto il mondo è sublime, ma soprattutto virale. La pubblicazione su Flickr è il grilletto: ogni opera accumula decine di migliaia di visite e rapidamente permette a Paul The Wine Guy di ottenere l’attenzione dei grandi siti internazionali. Inizia Slashdot, con il classico dibattito sui massimi sistemi tipico di questa piattaforma, poi arriva l’intervista con underwire, blog di Wired:

«Paul, who requested his last name not be used so his boss doesn’t know he’s occasionally slacking off, works as a web developer in Northern Italy. He tells the Underwire that the project was inspired by his two passions: art and computers. When he was younger, he attended the Academy of Fine Arts of Brera in Milan, and found it easy to “see the hilarious side of a painting.”»

In questa glorificazione internazionale si inserisce anche l’italianissimo Corriere.it: mette in home page il set completo di Understanding Art for Geeks pubblicato sino ad ora. Peccato che “dimentica” qualsiasi attribuzione a Paul The Wine Guy: unica concessione, dopo tutte le polemiche viste negli scorsi mesi, una laconica scritta “Da Flickr.com”, senza link. Scoppia una mobilitazione generale tra i titolari di tumblelog, che esprimono la solidarietà a Paul The Wine Guy: questi, intelligentemente, nota di non essere un angioletto in termini di rispetto del diritto d’autore, concludendo, a proposito dei suoi carnefici,

«devo disimparare nel chiamarli giornalisti. Perché se scrivono mediocremente, fanno errori, sono servili, cascano nelle bufale e copiano tutto ciò che gli capita in giro come un qualsiasi blogger preso a caso, beh, non vedo più nessuna differenza.»

La storia finisce con il ravvedimento del Corriere della Sera, che inserisce la citazione del sito di Paul The Wine Guy, ovviamente senza link. Ma è proprio l’osservazione di Paul che sintetizza, insieme alle discussioni tra giornalisti illuminati come Alberto D’Ottavi e Vittorio Pasteris, l’insegnamento di questa vicenda: la “blogizzazione” dei giornali è un processo complesso, che avviene in un momento storico in cui il diritto d’autore, in Italia, viene gestito in maniera bizzarra, tra vincoli a senso unico e immagini da “degradare” ai sensi di legge. Ecco, Paul The Wine Guy deve anche stare attento: a quest’ora avrà la SIAE alle calcagna per la pubblicazione delle opere d’arte…

La triade fornitori-prodotto-clienti perde colpi

Esiste un modo sintetico (per quanto semplicistico) di riassumere secoli di produzione industriale: si tratta di descrivere le aziende come agenti di trasformazione di materie prime, acquisite da fornitori, in prodotti, destinati ai clienti finali, con l’intermediazione di eventuali agenti terzi. La quasi totalità delle attività si può sintetizzare in questo modo: è pur vero che in alcuni casi nei decenni sono nati paradigmi leggermente modificati (ad esempio da parte delle istituzioni finanziarie, i cui prodotti si sono sin da subito presentati come immateriali), ma i tre soggetti principali del paradigma (fornitori, clienti, prodotto) sono sempre stati i protagonisti indiscussi delle attività economiche di stampo capitalistico.

Persino la manodopera, punto di attenzione per eccellenza dei critici più feroci di questo modello economico, è stata per anni vista come un fattore di produzione, riconducibile perciò ad una materia prima messa in circolo da fornitori (fino all’estremo delle società interinali, che trattano i dipendenti come fornitori e li rivendono come prodotti ai propri clienti). A valle, invece, raramente si sono visti cambi nella natura dei clienti: al massimo, col tempo è variata l’importanza degli intermediari, crescendo notevolmente nel B2C (pensiamo alla crescita esponenziale del potere della GDO) e diminuendo drasticamente nel B2B (ormai molti agenti di commercio fanno la fame).

Esiste un mercato che, tuttavia, ha nel tempo scardinato questo modello tradizionale: si tratta di quello pubblicitario. Gli italiani lo hanno scoperto con la nascita delle televisioni commerciali: abituati ad essere clienti della elefantiaca Rai, negli ultimi anni hanno scoperto di essere il prodotto che le reti private (ma ormai anche la stessa TV di Stato) vendono ai propri inserzionisti pubblicitari. Non è un caso che anche il mondo dell’editoria cartacea abbia progressivamente sposato questo modello: le revenue da prezzo di copertina ormai sono risibili rispetto agli introiti pubblicitari. La frequente trasformazione dei concessionari in editori è la riprova più evidente in tutta Europa: Urbano Cairo non è stato il solo a verticalizzare la propria attività.

Lo sboom delle attività econimiche legate alla Rete al cambio di millennio è in parte derivato dal non essere riusciti ad applicare in pieno né il modello industriale tradizionale, né quello ormai preminente in ambito pubblicitario. Solo l’ampia avanzata del Web 1.5 e dell’ampio ricorso al crowdsourcing ha permesso di creare un modello economico almeno parzialmente sostenibile: le folle sono diventate fornitori di contenuti per i gestori dei siti, che li veicolano ad aziende clienti interessate ad apporvi la propria pubblicità. Qualcosa di molto simile al modello pubblicitario, ma con una differenza fondamentale: la materia prima, stavolta, sono le idee, non le eyeballs. Non è un particolare insignificante: è su questa distinzione che si fonda il futuro della pubblicità in Rete, ma soprattutto della sostenibilità economica della stragrande maggioranza delle piattaforme di cui ci serviamo quotidianamente…

Un anno di pancakes

È trascorso un anno da quando James Provan, per gli amici Gir2007, ha pubblicato su YouTube “Pancakes!”: da quel momento il video è stato visualizzato oltre 2,2 milioni di volte. Non è il più visto della storia del celebre sito, tuttavia è stato una pietra miliare nell’esplosione di celebrità che YouTube ha vissuto in questi mesi. Si tratta del primo video che ha avuto risonanza mondiale sui media tradizionali: in pochi giorni, infatti, durante la scorsa estate, l’ipnotizzante musichina ha trascinato il video sui maggiori canali televisivi di lingua anglosassone.

Quando il Times ha dedicato un articolo al video un paio di settimane dopo la pubblicazione, la canzoncina in questione era già arrivata al 3° posto della classifica musicale israeliana. Nel frattempo, una serie infinita di post (anche riflessioni in italiano sul suo successo) ne ha decretato il primo posto stabile per la chiave di ricerca “pancakes” in Google, contribuendo ulteriormente al successo del filmato e del suo autore. Il quale ormai viene venerato da molti affezionati utenti della piattaforma, che gli dedicano decine di filmati in cui ne imitano lo stile ed i contenuti.

Gir2007, dopo aver pubblicato diversi altri filmati, ha sancito ufficialmente il suo affetto per la piattaforma con il video “Addicted to YouTube”, realizzato con la raffinata tecnica stop-motion, ottenendo un nuovo successo da 1,6 milioni di contatti. Un caso positivo, insomma, dopo tanti contenuti solo fintamente creati dagli utenti, ma in realtà ripresi da canali televisivi: i contenuti del giovane scozzese vengono apprezzati perché richiedono sforzi immani per essere realizzati (anch’essi documentati in video di backstage) e sono sicuramente più divertenti di molti videoclip musicali mainstream.

Un anno di pancakes ci ha fatto capire che c’è un’attenzione diffusa e non marginale anche per contenuti non prodotti dalle major (motivo di sviluppo del mercato P2P negli anni a cavallo del cambio di millennio) né porno (eterno driver della tecnologia). Per ora i Gir2007 che hanno successo on line sono giovani e felici di ottenere fama, commenti e stelline: sarebbe interessante capire cosa li gratificherà quando si renderanno conto che le grandi piattaforme passano di mano a cifre miliardarie grazie al loro talento.

Politici scottati dalla prova del fuoco

Due anni e mezzo fa, mentre andava salendo l’attenzione del mondo politico verso i fenomeni della Rete sociale, molti di noi avevano partecipato al dibattito lanciato da Luca De Biase sulle tecniche e le strategie da adottare nel confronto con l’esigente pubblico di blog e dintorni. Le successive tornate elettorali, quelle Politiche in particolare, non hanno però segnato un grosso passo in avanti verso i precetti individuati da chi in Rete vive da tempo: i politici sono andati avanti con le proprie tattiche di comunicazione politica tradizionale, eventualmente aprendo i soliti siti-vetrina che d’altra parte ormai compaiono periodicamente da almeno dieci anni a questa parte.

Poi negli ultimi mesi la multimedialità ha preso il sopravvento ed oggi l’attenzione degli astanti si è progressivamente rivolta verso le nuove piattaforme: “se abbiamo imparato ad andare in TV — avranno pensato i politici — sarà un gioco presentarci su YouTube”, un po’ come andare in triciclo dopo aver imparato ad andare in bici. Ed eccoli così tutti impettiti ed eleganti sui loro tricicli virtuali, con la calza davanti all’obiettivo ed il montaggio da filmato di matrimonio. Da notare che il riferimento non è necessariamente al video di Enrico Letta, che tutto sommato dimostra almeno un tentativo di dialogo; il problema è generalizzato e legato al difficile rapporto che il mondo della politica continua ad avere con elettori e radici locali degli organismi politici.

Basti vedere le difficoltà del povero Paolo Gentiloni alle prese con la maledizione di Beppe Grillo: dopo mesi e mesi di post seguiti da una ventina di commenti ciascuno, è bastato puntare il riflettore sul suo blog per renderlo tecnicamente inutilizzabile e comunicativamente inutile. Una volta appreso l’esito dell’accettazione alle primarie del Partito Democratico, i suoi colleghi di partito, come Rosy Bindi, affilano le armi mentre vedono comparire sul Web misteriosi scalfarottini di turno e diventare sempre più forti personaggi insidiosi come il buon Mario Adinolfi, l’uomo che concilia poker, MTV ed aspirazioni politiche. A questo punto manca davvero solo Personalità Confusa, il nostro idolo bloggaro.

Alle prossime Elezioni Politiche il Web avrà per la prima volta un’importanza rilevante anche in Italia, così come succederà ancora prima alle prossime Elezioni Presidenziali negli Stati Uniti. Inutile dire che i nostri politici dovranno imparare da quei candidati come gestire la popolarità via Web; eppure, anche noi elettori dovremo cercare di comprendere da quell’esperienza come sfruttare i meccanismi della Rete senza creare solo effetto rumore. C’è tanto da dire e tanto da ascoltare, da entrambe le parti, ma bisogna capire come farlo: altrimenti sarà solo un’immensa cagnara multimediale, visto che nessuno avrà una vita sufficiente a leggere anche un solo post con 3.000 commenti. Figurarsi se quella vita deve anche utilizzarla per fare il mestiere che gli abbiamo assegnato, quello di nostro rappresentante.

Second Life, first step

Nonostante negli anni sia diventato un portentoso strumento per solleticare la fantasia e l’interesse di giornalisti ed utenti, di Second Life su queste pagine si è parlato sempre poco: qualche accenno al suo uso in ambito universitario e poco più. Non è per altezzosità o supponenza, quanto piuttosto per timore reverenziale. Quando un fenomeno monta così rapidamente ed in maniera così ampia, è opportuno evitare di dare un giudizio tranchant o soggettivo. Forse è il caso di mantenere la calma, applicare un approccio scientifico e provare a costruire ipotesi di studio. L’alternativa è tornare a dibattiti simili a quelli della fine anni Ottanta, del tipo “Videotel sì / Videotel no”, o a quelli della seconda metà dei Novanta, quando c’erano i talebani delle chat ed i predicatori del verbo che vedeva le chat unicamente come luogo di lussurie inenarrabili.

Non è un caso che, in un’accesa discussione con Paolo Attivissimo, anche Fabio Metitieri proponga di tornare indietro con la mente: la storia di questi giorni, effettivamente, ha tanti punti in comune con quella di una dozzina di anni fa. Allora pochi siti, bruttarelli ma utili, iniziavano a solleticare la curiosità del grande pubblico e gli investimenti delle aziende, soprattutto in chiave promozionale; allo stesso modo, oggi, i giornali seguono con attenzione cosa si muove nel secondo mondo. La differenza, se vogliamo, è proprio negli spettatori del fenomeno: allora non esistevano molte fonti giornalistiche on line, non esistevano i blog e le opinioni individuali era necessario cercarle nelle comunità virtuali, tra un commento e l’altro al topic del giorno.

L’esplosione di meta-dialoghi a proposito di quanto accade on line, negli ultimi anni, è decisamente cresciuta: qualche commentatore si è addirittura specializzato nel discettare di argomenti specifici. Il caso tipico, proprio riguardo a Second Life, è Wagner James Au, che si è ritagliato il ruolo di Cassandra ufficiale della piattaforma tridimensionale: le sue opinioni sono spesso condivisibili, ma quelle degli epigoni che le utilizzano per “distruggere il mito” sono parte stesso dell’hype montante, che infatti sta assumendo carattere negativo dopo mesi di puro ottimismo. Molto più saggi gli interventi come quello di Massimo Moruzzi: l’ottica è quella aziendale, l’analisi è pessimistica ma sensata. Colpisce soprattutto il paragone immobiliare, perché fotografa bene la mentalità di molte organizzazioni nostrane.

Esprimere un giudizio secco su Second Life, dunque, ha la stessa possibilità di essere legittimo quanto potevano essere le discussioni sterili di cui si diceva all’inizio. Il Videotel è stato ucciso dall’evoluzione tecnologica e dalle truffe (ma non ditelo ai francesi, che al Minitel sono decisamente affezionati ancora oggi), le chat sono andate svuotandosi a favore delle discussioni tramite instant messenger. La tecnologia cambia e Second Life è solo il primo passo dell’ultima evoluzione tecnologica del Web, quella tridimensionale: si tratta di una tecnologia proprietaria e di un ambiente chiuso, ma un’evoluzione intelligente probabilmente trasformerà il tutto in qualcosa di molto diverso da quanto vediamo oggi.