Il mito intramontabile delle PMI miete vittime

Fa una certa impressione vedere il Web pieno dei faccioni dei (presunti) manager di piccole e medie imprese chiamati a testimoniare che non sia «un caso che più del 65% dei clienti SAP sono piccole e medie imprese». Fa impressione non solo per la bruttezza estetica della campagna (ampiamente ricompensata dall’alta qualità dei prodotti SAP), quanto per il fatto che, oltre che sui banner, i faccioni in questione si incontrino anche negli aeroporti o in altri “luoghi” in cui si parla di aziende, business, sviluppo. SAP sta investendo pesantemente per raggiungere un target effettivamente lontano da quella che è la percezione comune dei suoi clienti: non solo le “solite” grandi imprese, dunque, ma anche quelle dai budget più limitati.

Bisogna anche dire che la campagna prevede casi di studio di aziende che SAP ritiene PMI, ma i cui fatturati partono da meno di 20 milioni di Euro ed arrivano ad oltre 500. Il che vuol dire escludere le aziende dell’S&P Mib, ma includere molte aziende quotate sulla Borsa Italiana. L’idea di fondo della campagna SAP è comunque corretta: si punta alle imprese che vogliono crescere, partendo appunto da posizioni di retrovia. Sicuramente è indubbio che soluzioni come quelle della casa tedesca possano dare una mano a sviluppare i business più disparati, soprattutto quelli di matrice industriale; ciò che colpisce, tuttavia, è che non è la prima volta (ma soprattutto non sarà l’ultima) che si vede una grande azienda ricorre al mito intramontabile delle piccole e medie imprese come cliente ideale dei propri prodotti e servizi.

Il problema, d’altronde, è che le grandi aziende che operano in Italia (e ancor meno quelle di origine italiana) sono veramente poche. Quando le grandi aziende hanno smesso di vendersi servizi l’un l’altra, iniziano a rincorrere le PMI come se fosser il serbatoio perfetto: sperano di riciclare i propri metodi e le proprie offerte, consce che ripetere lo stesso mantra (quello derivato dall’esperienza con le sorelle maggiori) a qualche decina di imprese sarà un po’ uno sbattimento, ma si preannuncia decisamente redditizio. Ci provano tutti: banche, società di consulenza, agenzie di pubblicità, assicurazioni, società di leasing e fornitori di tutti i tipi, tutti in fila davanti alle porte delle piccole aziende. Hunter addestrati per attrarre clienti dai fatturati minimi, se non altro per toglierli alla concorrenza; account manager con la schiuma alla bocca che lottano per avere budget ridicoli, pur di poter inserire referenze nel portfolio.

Puntare così ciecamente alle PMI è un errore di marketing da manuale. È come cucinare un infuocato piatto di spaghetti all’arrabbiata e darlo in pasto ad un neonato, dicendo “ma tanto sono solo due fili”; è sbagliare la propria strategia, dare porci alle perle mentre si è convinti di distribuire ostriche, ma soprattutto sbagliare tutto nell’interpretare i desiderata dei propri (potenziali) clienti. I quali, dal canto loro, hanno tutti i problemi (anzi, molti di più) di quelli delle grandi imprese: chiederebbero solo di poterli raccontare a qualcuno, invece di vedersi ogni volta rovesciati addosso tonnellate di slide “buone per tutte le occasioni”. Il mito intramontabile delle PMI continuerà ad uccidere le grandi aziende che su di loro hanno puntato tutto: peccato, perché basterebbe ascoltare la loro voce invece che alzare la propria.

TFR, la guerra inconcludente

Dopo mesi e mesi di assordante silenzio, la guerra per il TFR si è scatenata a poche settimane dal termine ufficiale per la scelta, previsto per questo fine settimana. Tutti sono passati alle grandi manovre: Enti pubblici, SGR, Governo, Banche, datori di lavoro, Assicurazioni, Sindacati, Fondi di categoria, hanno espresso la propria posizione. Ognuno ha alzato più o meno la voce per raggiungere l’obiettivo un po’ da tutti auspicato: convincere gli italiani a cambiare la propria percezione del tema dell’assistenza sociale, transitando dal classico modello europeo dello Stato tutto-fare ad un modello misto, in cui Financial institutions specializzate (Assicurazioni in primis), forniscano piani integrativi alle sempre più modeste risorse pubbliche.

Proprio in queste settimane, quasi come un controcanto, lo Stato sociale a noi così familiare viene promosso a sogno da parte di Michael Moore, che nel suo Sicko mette in risalto le pecche del sistema opposto: negli Stati Uniti il take-over sullo stato sociale da parte delle grandi assicurazioni ha portato, secondo il regista, soprattutto danni. Da notare che in Europa nessuno Stato vuole arrivare ad eccessi simili: il forte potere dei Sindacati sembra prevalere rispetto a questo tipo di intermediari finanziari. Anche le politiche che hanno determinato l’obbligo della scelta della destinazione del Tfr va decisamente in questa direzione: vengono sensibilmente premiati i fondi di settore, nati sulla base di accordi tra associazioni imprenditoriali ed appunto organizzazioni sindacali. I dipendenti che li scelgono ottengono addirittura un contributo obbligatorio supplementare da parte delle aziende.

In un contesto simile, ai “poveri” intermediari finanziari resta, oltre alla gestione tecnica dei fondi settoriali di cui sopra, la speranza di riuscire a convogliare le risorse di chi, sfiduciato dall’andamento mediocre dei fondi pensione negli scorsi anni, ha maggiori attese di crescita per la propria “retribuzione differita”. Il totale degli indecisi, d’altronde, è così alto da sembrare l’astensione ai referendum: a maggio, quando era partita la sgrammaticata campagna “Basta che vi decidete”, si era ancora sul 75% di indecisi. Non soprendono, perciò, le varie campagne che improvvisamente hanno invaso affissioni, quotidiani, canali televisivi e siti specializzati: non solo pubblicità pura da parte dei player, ma anche attività promozionali ed istituzionali da parte delle associazioni di categoria e degli enti pubblici.

Il video della campagna ArcaSe lo Stato ha scomodato Ozpetek con una campagna milionaria, i sindacati si sono buttati sul più economico YouTube; se Alleanza Assicurazioni ha avuto la brillante idea del gettone gigante che, come ha notato Valerio Macchia, diventa più piccolo invece di crescere, Arca ha punto tutto sugli omini dei segnali stradali che, in televisione ed in numerosi banner in giro per la Rete, corrono ad aderire ai fondi pensione dell’SGR di matrice popolare. Gradi diversi di creatività, ma che risultano di scarso impatto sui destinatari finali: la maggior parte dei dipendenti lascerà il TFR dove è sempre stato, in barba al silenzio-assenso. E tutta questa agitazione sembrerà ancora più inconcludente: alla fine a guadagnarci saranno stati solo i media che hanno ospitato gli annunci e le agenzie che li hanno prodotti.

I cannibali

SanPaolo ZeroTondoC. ha soli 25 anni ma è già stufo della sua Banca locale, nel Nordest. Gli vengono addebitate spese folli, nonostante non utilizzi praticamente mai il suo conto, aperto più che altro per ragioni legate alla vita universitaria. Incontra per caso il giovane responsabile, amico di famiglia, di una filiale delle Casse di risparmio che da qualche anno fanno parte del Gruppo SanPaolo. Una rapida chiacchierata e la decisione è presa: passerà nella sua filiale per aprire il nuovo conto Zero Tondo, che nella versione under 26 comprende la gratuità di tutte le operazioni, comprese quello allo sportello. Il responsabile di filiale lo accoglie con entusiasmo e gli racconta che l’apertura del suo conto è una pietruzza preziosa: i suoi clienti storici stanno infatti passando in massa dai vecchi conti SanPaolo al nuovo conto ed il suo capoarea, al fine di salvaguardare il bilancio di filiale, gli ha imposto l’apertura di 3 conti Zero Tondo per ogni conto chiuso.

Una foto della confezione di AZ15 tratta da un noto supermercato on lineM. ha una cinquantina di anni e tiene alla sua igiene orale, sebbene qualche fastidio alle gengive lo affligge da anni. Proprio per questo motivo, sin dagli anni Ottanta, compra AZ15, il dentifricio di matrice medica un tempo prodotto da Pierrel ed oggi parte del portafoglio Procter & Gamble. L’AZ15 negli anni ha iniziato a costare sempre di più ed è rimasto l’unico dentifricio per il quale è necessario passare in farmacia, ma M. ignora il fatto che nei supermercati più forniti potrebbe trovarlo lo stesso. Un giorno è capitato in un negozietto con la moglie: hanno comprato qualche pacchetto di AZ Linea Natura, tanto pubblicizzato in TV con lo slogan «naturalmente conveniente». Effettivamente conveniente lo è davvero: costa un terzo dell’AZ15 e la metà degli altri dentifrici AZ. M. lo compra, lo assaggia, lo usa: in fin dei conti stiamo parlando di un dentifricio, non di un salvavita, quindi va bene così.

Il logo dei nuovi reparti di AuchanE. ha quasi 30 anni e va pazza per gli ipermercati: ci va appena possibile sin dai tempi dell’Università, almeno una volta alla settimana. Sguazza tra i reparti alla ricerca delle offerte speciali e compra i prodotti che Carrefour, Iper o IperCoop le offrono. Non sono sempre i suoi prodotti preferiti, ma sono sempre di marca, altro che quello schifo di discount! Lì non metterebbe mai piede, anche perché ha grossa fiducia nella GDO: una volta trova le offerte a 99 cents, una volta  c’è il 3*2, qualche altra lo sconto del 50%, ma la cosa comune a tutte le offerte è sempre il buon rapporto qualità / prezzo. Poi si trasferisce in una nuova città: come nel resto d’Italia Città Mercato è diventato Auchan ed ha aperto una sezione denominata “Self-Discount”. I prezzi sono bassi e c’è un po’ di tutto: all’inizio E. compra lì i prodotti di uso comune (sale, zucchero…), poi inizia ad acquistare anche altro. In fin dei conti, si tratta degli stessi prodotti che troverebbe in un discount, ma lei non lo sa.

I cannibali non sono C., M. ed E. ma i prodotti e servizi che acquistano. Il conto corrente che uccide i suoi grassi progenitori, il dentifricio conveniente o la sezione low cost dell’ipermercato sono stati creati per attirare nuovi clienti, ma finiscono con il convincere quelli storici, già affezionati ai relativi marchi, a cambiare i propri consumi. La redditività crolla, di fronte a consumi che non possono aumentare: non si può sperare che un solo cliente apra i magici 3 conti correnti, acquisti più dentifricio o acquisti due volte lo zucchero, una volta di marca ed una volta primo prezzo. Il cliente è contento, perché risparmia a fronte di qualità forse inferiore, ma non drammaticaente diversa da quella di sempre: in fin dei conti c’è l’azienda di sempre a garantire, no?

Le Banche italiane e la gestione del naming

Non sembra ricevere grande eco la notizia, pubblicata ufficialmente stasera ma già nell’aria da qualche giorno, della fusione tra il Gruppo Banche Popolari Unite e il Gruppo Banca Lombarda e Piemontese. Risulta strano, visto che il Gruppo finanziario che ne verrà fuori sarà sicuramente tra i più rilevanti del Paese, in termini di numeri di sportelli e volume di affari gestito. Eppure c’è da scommettere che se investitori istituzionali e trader dedicheranno attenzione alle mosse dei due titoli da qui sino al momento della fusione, al contrario i giornalisti non economici e i clienti finali terranno in scarsa considerazione l’annuncio.

Il motivo sta nel fatto che, contrariamente ai recenti casi di SanPaolo – Banca Intesa e del takeover sulla Banca Popolare Italiana, i soggetti interessati questa volta sono meno conosciuti come gruppi, mentre sono molto note a livello locale le loro banche reti: i lombardi conoscono bene realtà come la Banca Popolare di Bergamo, il Banco di Brescia o la Banca Popolare Commercio Industria, così come calabresi e pugliesi vedono in Carime la loro principale banca. In tutti i casi citati, al contrario, l’appartenenza ai gruppi viene tenuta in scarsa considerazione o ignorata.

Non è che gli altri attori del mondo popolare siano molto più conosciuti. Pochi si interessavano di Banca Popolare di Lodi o di Banca Antoniana Popolare Veneta, prima che vivessero la stagione degli scandali; solo gli addetti ai lavori ancora oggi comprendono la rilevanza del Banco Popolare di Verona e Novara, al di là della fusione con BPI. Il modello federativo scelto dai principali gruppi popolari, da quello veronese a quello bergamasco a quello bresciano, premia l’identità locale delle banche, ma fa fatica a far comprendere ai clienti la rilevanza dei relativi gruppi, ormai di gran lunga superiore a quella di nomi più noti come Capitalia, BNL, Montepaschi.

Bisognerebbe capire perché, sebbene nell’ultimo quindicennio le fusioni non siano mancate, ci sia stata così scarsa attenzione a valorizzare i nomi delle Banche rete e dei gruppi risultanti. L’unico caso realmente vincente è stato quello di UniCredit: intorno allo storico Credito Italiano le Banche reti fuse, seppure rilevanti (basti pensare a CRT o CariVerona), si sono amalgamate in un progetto dall’identità chiara e condivisa dalla clientela. Si potrebbe dire altrettanto di Banca Intesa: tuttavia le due banche di partenza erano poco note a livello nazionale ed è difficile perdonare a Passera & C. l’uccisione del marchio Banca Commerciale Italiana, che sarebbe stato ottimo per una rete Private o Corporate.

Recentemente è stato annunciato che il nome del nuovo gruppo torinese-milanese sarà Banca Intesa San Paolo. Tanta perplessità sulla scelta, ma soprattutto apprensione verso il destino del marchio di Piazza San Carlo: tutti hanno visto Banca Intesa BCI (chissà perché pronunciata da tutti bi-si-ài) diventare nuovamente Banca Intesa. Anche AntonVeneta ha perso lo sua identità, perdendo lo status di Popolare nel nome e vedendo apparire sulle sue insegne vistosi loghi di ABN Amro. Ora rimane da rendere nota la strategia di branding dei gruppi risultati dalla fusione BPVN – BPI e da quella BPU – BPLP.

Si intravvede già, se è possibile dirlo, un vizio di egoismo: un nome come Banca Popolare Italiana va benissimo per un’aggregazione di Banche Popolari, ma è evidente che BPVN non accetterà mai di prendere il nome della sua preda. Analogamente, Banche Popolari Unite è un altro bel nome per unire sotto lo stesso cappello le 10 Banche Rete del Gruppo nato stasera, ma i manager del Gruppo bresciano si opporranno strenuamente ad accettare il nome della controparte. Così, altri due bei nomi sinonimi di coesione finiranno nel dimenticatoio, i timidi processi di aggregazione andranno persi e i nomi delle banche locali trionferanno ancora una volta. In attesa della fusione successiva.

C’è Intesa nell’aria

I due Consigli di Amministrazione l’hanno appena sancito ufficialmente: la mega-fusione tra SanPaolo Imi e Banca Intesa avverrà nel giro di pochi mesi. Nascerà qualcosa di ancora poco definito, ma dalle dimensioni mostruose: tutti guardano alle migliaia di filiali ed alle decine di migliaia di dipendenti, ma non vanno dimenticati anche l’impressionante AUM totale ed il potere sui mercati aziendale e Private. Non solo retail e soprattutto non solo banca: nel destino del nuovo Gruppo le società prodotto avranno un ruolo preponderante come produttrici e distributrici di prodotti e servizi di investimento.

Entrambe le aziende hanno scelto il partner giusto: solo la fusione dei numeri due e tre di un mercato può impensierire il leader ed in questo caso probabilmente superarlo, almeno sul mercato domestico. Poco da fare sul fronte internazionale: come al solito, le banche italiane sono nanerottoli che giocano a fondersi per sentirsi grandi. C’è bisogno di ulteriori spinte verso M&A ben calibrate: ormai l’invasione delle Banche straniere in Italia è realtà e sarebbe il caso di seguire il buon esempio di UniCredit e dei suoi investimenti internazionali. Non è solo questione di immagine: competere sui mercati europei vuol dire far muovere l’economia domestica grazie ai fondi internazionali.

Dal punto di vista del consumatore, c’è da sperare che la fusione possa servire a fare ordine tra le reti dei due Gruppi: se in questi giorni i media si sbracciano nel parlare della presenza ipertrofica in Lombardia e Piemonte, i clienti guardano gli sportelli sotto casa e vedono una messe di marchi, dal Banco di Napoli alla Cassa di Risparmio di Parma e Piacenza, dalle Casse di Risparmio venete alla Cassa di Risparmio di Fano. Sarà altrettanto curioso osservare l’evoluzione di aziende come Fideuram ed Eurizon, fino ad ora abbastanza autonome nel mondo di SanPaolo: chissà se i Clienti arriveranno a percepire qualcosa in comune a tutte le società del nuovo Gruppo, o le vedranno sempre come monadi eterodirette.

C’è chi usufruirà della fusione: consulenti e speculatori in primis. Finiti i botti, però, il successo dell’iniziativa sarà nelle mani del top management, soprattutto di quello commerciale: sarà importante affermarsi sul mercato per la qualità dell’offerta, non per la soffocante presenza di filiali in ogni angolo. Basta con la politica bizzarra di banca federale che sembra piacere tanto a Torino: si abbia il coraggio di prendere il meglio dai due Gruppi e rivendere sul mercato ciò che si ritiene superfluo. Tutto ciò farà bene al mercato: non si avvia solo una nuova serie di fusioni, ma anche una reale effervescenza concorrenziale.

Il World Retail Banking Report 2006 arriva in Italia

Verrà presentato a Roma il prossimo 19 giugno il World Retail Banking Report 2006, lo studio sul mondo bancario B2C annualmente curato da Capgemini, ING ed European Financial Management & Marketing Association. Si tratta di un’iniziativa interessante che, al di là dei fini meramente promozionali dei redattori, offre agli operatori finanziari di tutto il Mondo un’occasione di confronto sull’evoluzione dei principali temi commerciali nei vari mercati mondiali.

Basterebbe leggere la conclusione del rapporto per avere un’idea dei principali risultati; tuttavia, gli insight migliori possono derivare dai dati grezzi da un lato e dalle pagine di approfondimento sull’evoluzione della multicanalità dall’altro. Soprattutto quest’ultima sezione è quella che evidenzia i trend più comuni a tutte le aree mondiali: le banche attendono sensibili incrementi nelle vendite sui canali diretti e spostano perciò il lavoro delle filiali verso un approccio più destinato alla relazione col Cliente.

Nulla di nuovo sotto il sole, a dire il vero, se non il fatto che dalle parole degli scorsi lustri si è passati ai fatti: le interviste ai top manager interessati alla multicanalità suggeriscono qualcosa che va oltre l’incremento dal 2% del 2000 al 17% previsto per il 2010 nelle vendite pure (non pre-sales o marketing) via Web. Emerge l’attesa che, sempre nel 2010, di fatto filiali, ATM e Web offriranno lo stesso bouquet di servizi, con evidenti profili reddituali diversi: chissà che finalmente non si smetta di considerare l’ATM come il viatico alla migrazione sul Web.

Per il resto, colpiscono soprattutto gli andamenti dei prezzi: un cliente attivo paga mediamente 76 Euro all’anno per servizi bancari di base, cifra lontana sia dai ben più alti prezzi delle filiali italiane, ma notevolmente superiore ai costi di un cliente europeo del tutto “virutalizzato”. Ciò che viene premiato dalle Banche è in realtà la quantità di servizi utilizzati più che il modo di farlo: il rapporto di 4,6 ad 1 dei costi dei prezzi tra clienti molto attivi e scarsamente attivi è sensibile e difficilmente suscettibile di cambiamenti nel medio termine.

Per gli aficionados del settore, per i markettari o anche semplicemente per i Clienti finali, il rapporto merita una lettura. Se si vuole regalare i propri dati a CapGemini, è sufficiente iscriversi qui per il download. Altrimenti, basta andare su Google e scoprire il link diretto da CapGemini Belgio.

Capitalia, cambia tutto (per ora sulla carta)

Termina domani l’operazione “Cambia Tutto” lanciata da Capitalia qualche settimana fa attraverso un massiccio mailing: sembra siano state prodotte 2 milioni di copie dello pseudo – giornalino da distribuire nelle cassette postali dei residenti nelle vicinanze delle filiali interessate dal programma innovativo “Delta 2”. Di fatto, oltre ad un foglio A2 piegato in quadricromia, il vero interesse del plico plastificato è il foglio contenente i 2 coupon relativi al Concorso “Cambia tutto” ed alla Carta Capitalia Click E.

Nel primo caso, l’idea è abbastanza tradizionale: un coupon da compilare con i propri dati anagrafici (o stampare dalla Rete) e da portare in filiale per partecipare all’estrazione di una quindicina di viaggi verso le coste di Valencia, città ospite dell’America’s Cup. Nel secondo, il prodotto offerto è decisamente interessante: una carta del circuito elettronico di Mastercard, ricaricabile, offerta gratuitamente per 3 anni. Buone anche le condizioni economiche: due Euro per i servizi in filiale, un Euro per quelli sui canali diretti (ATM in primis).

Tutto oro che luccica? Quasi, visto che il passaggio dai piani di marketing romani all’applicazione pratica è decisamente meno brillante: l’esperimento di un viaggio in una delle principali filiali di Banca di Roma a Milano, aperta al sabato mattina, diventa un calvario. Se il sito recita:

«E per averla non occorre neanche aprire un conto corrente!
E il sabato straordinarie offerte in promozione anche per i nuovi clienti!»,

ovviamente la prima cosa di cui si viene informati è “che sarebbe meglio aprire un conto corrente” per avere la carta da non cliente, altro che promozioni esclusive. Visto che non basta essere clienti Fineco per essere ritenuti cliente Capitalia, prima tocca l’interminabile censimento (solo a patto di avere la tessera plastificata del codice fiscale, tra l’altro), poi l’inevitabile notizia: la procedura di emissione delle carte è giù e nessuno sembra avere molta voglia di contattare l’help desk centrale. Il coupon per Valencia, poi, è qualcosa di completamente sconosciuto: cos’è e che fine deve fare?

È necessario tornare in settimana ed affidarsi a nuove persone: la carta viene emessa con un foglio sintetico di 5 pagine (!) che presenta simpatici asterischi: ad esempio, che fino a data da destinarsi il prelievo gratuito è possibile solo presso la Banca emittente e non da tutti gli ATM Capitalia. D’altra parte, la carta scade tra poco più di due anni e non tra tre come si potrebbe immaginare in base alla promozione: fa parte dello stock che la filiale ha ricevuto lo scorso autunno, quindi la decorrenza parte da allora e non dalla consegna al Cliente. Ironia della sorte, la carta è in realtà emessa da Fineco Bank e collocato dalla Banche rete.

In passato su queste pagine si era plaudito al coraggio di alcune scelte di marketing di Capitalia: giudizio positivo confermato nelle intenzioni, ma tanta perplessità sulla declinazione nella realtà periferica della Banca (filiali popolate da giovani impiegati mentalmente rimasti nel Medioevo) od in quella organizzativa centrale (possibile che non si siano ancora uniformati i sistemi sottesi agli ATM?). Speriamo che le tante voci sul destino societario di Capitalia non condizionino le scelte dei piani alti in merito all’avvio di nuovi programmi come Delta 2: cambiare l’approccio al Cliente non solo è opportuno, è anche necessario.

Qui BPU porta le Popolari nel futuro

Il nuovo logo di Qui BPUDopo mesi di notizie non troppo positive dall’Italia delle Banche Popolari, finalmente possiamo sorridere per una bella notizia: è on line Qui BPU, l’home banking del Gruppo BPU che prende il posto del triste mondo Lineattiva, il vecchio sistema di servizi multicanale che la Banca Popolare di Bergamo ha progressivamente imposto a tutte le banche entrate nel Gruppo negli ultimi anni. Il passo in avanti è notevole: si passa da un insieme di siti vistosamente antiquato ad un sistema multicanale che vive nei vari tentacoli delle Banche coinvolte.

Per il più filiale-centrico dei gruppi bancari italiani, in effetti, è un ottimo passo in avanti: Qui BPU si declina sul Web, nei call center e sui cellulari. Le notizie che lo riguardano campeggiano negli ATM e nelle filiali di tutte le Banche è possibile sottoscrivere pacchetti Duetto che comprendono l’accesso gratuito a questi servizi. Il servizio, vista la sua natura poliedrica, è sulla strada giusta per essere il primo mattoncino per quel processo di convergenza delle Banche rete del Gruppo di cui molti consumatori sentono l’esigenza: ormai siamo abituati a grandi conglomerati come UniCredit ed Intesa ed il modello poli-banca di SanPaolo o Capitalia non convince del tutto.

Vedremo dunque cosa ci riserverà Qui BPU nei prossimi mesi: di lavoro da fare sembra essercene ancora, da parte di tutti gli attori sul mercato, per uniformare i sistemi italiani di home banking a quelli europei. Persino Fineco ha bisogno di una bella ripulita: l’enorme proliferare di servizi l’ha ormai reso un groviglio di link più che un portale transazionale. Qui BPU nasce molto più snello, ma ha delle spalle solide: sarà interessante monitorarne la crescita nel tempo, sui vari canali. La grande sfida, probabilmente, sarà mantenere vivo l’interesse degli utenti con proposte sempre nuove, ma in maniera ordinata (e razionale), riuscendo davvero a fare apprezzare i tanti pregi dell’approccio multicanale.

Appuntamento, quindi, alla maturità di questo prodotto, appena nato e già forte delle centinaia di migliaia di clienti ereditati dalle varie Banche rete, che vanno dal sud di Carime all’est di BPA, dalla provincia di Popolare di Todi alla metropoli di Commercio & Industria. Speriamo che questo appuntamento col futuro rechi qualcosa di radicalmente innovativo, che diventi un benchmark per tutto il mercato. Nel frattempo, superando la tradizionale pacatezza, chissà che le banche del Gruppo non prendano una decisione forte e univoca che superi gli egoismi locali: c’è bisogno di essere abbastanza alti, in un mondo di giganti.

Considerazioni di fine 2005

Come già avvenuto lo scorso anno, è il momento di tirare i fili di quanto avvenuto nel 2005 e di abbandonarsi a vaghe previsioni sull’anno incipiente. Obiettivamente, Capodanno è il momento dei bilanci e delle previsioni: per fortuna, quest’anno non ci sono fenomeni impressionanti in corso come lo Tsunami di fine 2005 a sfalsare auguri e riflessioni. I mezzi di comunicazione fanno a gara a fare rassegne dei “grandi avvenimenti” visti in questi mesi, ma hanno scarsa preveggenza sul futuro.

L’occhio al passato porta senza dubbio a Roma: la grande scoperta del 2005 è stato vedere quanto anche nella secolarizzata Europa la morte di un Pontefice sia l’Evento per eccellenza, quello che non lascia indifferente nessuno e trascina con sé tutti gli altri, concerti o eventi sportivi essi siano. La Chiesa Cattolica ha colto al balzo la palla dell’emotività collettiva dei suoi seguaci per proporre una rifocalizzazione sui core values del suo mondo, imponendo un nuovo leader che, pur peccando in termini di carisma, ha il potere di saper comunicare con precisione ai suoi adepti. Si aspettano le prossime mosse…

Da un punto di vista strettamente aziendale, la previsione sui successi di Trenitalia e keyword advertising si è in grande parte avverata: la Rete ha visto progressivamente affermarsi il suo potere commerciale, sebbene in molti Stati di Europa la diffidenza dell’utente medio sia ancora troppo alta. La consapevolezza collettiva delle potenzialità del mezzo è comunque cresciuta: ad esempio, l’atavica diffidenza per le transazioni con carta di credito via Web è stata superata da italiani e non attraverso espedienti artigianali come le ricariche delle carte di credito ricaricabili dei venditori all’asta.

Gran parte del successo di PostePay e prodotti simili deriva proprio da questo alto livello di fiducia nel mezzo frammisto ai bassi costi commissionali, imparagonabili a quelli di servizi più tradizionali come il bonifico bancario. Appare una lezione per i product manager di tutto il Mondo: attenzione all’uso che i clienti fanno dei vostri prodotti. In questo caso, Poste Italiane si sfrega le mani e PayPal piange: in altri, l’abbiamo visto nel 2005, aziende e clienti possono avere interessi troppo divergenti per consentire un sereno confronto. Alcuni settori, come appunto quello bancario, dovranno imparare nel 2006 ad assecondare maggiormente i desiderata dei propri clienti: il caso Genius One insegna che ormai siano finiti i tempi delle vacche grasse.

Il miglior articolo su Rete e dintorni visto nel 2005 è stato quello di Shirky sulle ontologie: in tempi di acquisti milionari di siti e sitarelli che hanno visto nel “Web 2.0” il nuovo campo di battaglia commerciale ed a causa della perdurante assenza di business model sensati, sarà importante tenerlo a mente alle prossime notizie sulle mosse di Yahoo! e Google. Il più grande augurio per il 2006, d’altra parte, riguarda proprio questo tema: che i prossimi mesi non presentino una versione rivista (e poco corretta) di quanto avvenuto poco meno di 10 anni prima, che non si crei una nuova bolla speculativa. Il Web non è più un germoglio come allora: è una piantina che ha messo radici. Speriamo non si abbassi terribilmente la temperatura.

Politiche di marketing e macroeconomia in pillole

C’è qualcosa di estremamente positivo nel pagare qualsiasi cosa con la carta di credito: a parte il non utilizzare i sudici contanti (che ormai molti usano solo saltuarimente per caricare la chiavetta dei distributori automatici), l’idea che la spesa in corso verrà addebitata non prima del decimo (o del 15°, o anche solo del 1°) giorno del mese successivo mette un po’ tutti nella condizione di immaginare qualsivoglia miracolo che, nelle settimane successive, stravolgerà (in positivo) il cash flow familiare. I markettari conoscono il brivido del plastic money e fioriscono ovunque offerte di carte di credito.

Il credito al consumo esalta ancor più l’aspetto favolistico promettendo che, solitamente a tasso zero, l’ultimo ritrovato dell’elettronica sarà nelle proprie mani entro pochi secondi, ma che il relativo costo verrà sostenuto in tante piccole rate da lì all’eternità. Le carte di credito revolving dovrebbero unire i due profili del furbo acquirente ed a ben vedere le offerte di carte di credito fanno parte di questo redditizio (per gli issuer) segmento: tuttavia, dal lato del consumatore, ci si accorge i tassi proibitivi fanno diventare le piccole rate progressivamente sempre più grosse e soprattutto, a mente fredda, il bene è costato notevolmente di più di un acquisto a saldo al giorno zero.

Questi pensieri affolleranno le menti di quelli italiani che devolveranno al saldo di tutte queste piccole e grandi rate, fino a quel primordiale acquisto d’impulso maledetto ogni giorno meglio conosciuto come mutuo, gran parte delle proprie tredicesime. L’altra parte di italiani, quella che vive di contratti a progetto e collaborazioni saltuarie, la tredicesima non sa nemmeno cosa sia: si accontenta di non consumare e basta. Anzi, per sicurezza, rimane a casa della mamma.

Lo dice anche l’articolo dell’Economist che in questi giorni ha scaldato il dibattito pubblico: un quadro assolutamente lucido che, contrariamente a quanto sostengono i politici italiani, contiene solo dati realisticamente corretti. C’è poco da essere entusiasti: dopo le crisi di inizio anni Novanta, quelle del decennio successivo ci fanno riflettere sul fatto che l’entusiasmo generalizzato della seconda metà degli anni Novanta era più un modo di auto-convincersi che l’economia potesse magicamente ripartire da sola, piuttosto che un vero momento di floridità.

Allo stesso modo, le strategie di marketing del futuro prossimo dovranno maggiormente tenere conto di questa sorta di indici di fiducia dei consumatori impliciti: per quanto ci si possa dedicare a nicchie redditizie, difficilmente si riuscirà a sfondare in mercati come quello italiano in cui persino la domanda di beni primari è fiacca. Tutti si domandano quale possa essere The Next Thing, il prossimo volano dell’economia mondiale: quella europea e quella italiana seguiranno come al solito a ruota. Sperando che arrivi presto.