Google Buzz, il macigno col punto interrogativo sopra

Da un po’ di tempo, la maggior parte degli articoli sulle iniziative “social” di Google iniziano con incipit del tipo “Voglio bene a Google, però stavolta…”. Questo potrebbe iniziare allo stesso modo, se non fosse che, parlando di Google Buzz, è un po’ presto per farsi davvero un’opinione. Vero che si tratta di una piattaforma con molte decine di milioni di utenti dal giorno zero, ma il suo utilizzo è ancora troppo limitato per trarre conclusioni.

Dopo l’accartocciamento di Orkut (oggi sul solo mercato brasiliano), dopo la meteora infuocata di Knol (altro che Wikipedia), dopo lo sgonfiamento di Lively (persino Second Life ha resistito meglio) e soprattutto dopo il trauma collettivo di Wave (il grande sogno divenuto un incubo di usabilità), magari stavolta Google ha azzeccato la formula giusta per svolgere un ruolo preminente nel difficilissimo mondo dei social network “universali”.

La formula di Google Buzz, d’altronde, è ben rodata: è una copia di FriendFeed, spruzzata di “ispirazioni” prese da altri social network noti e condita dallo stile Google. Il suo peccato originale è probabilmente la volontà di integrare il più possibile i servizi già esistenti di Google: così come non aveva mai funzionato davvero Google Friend Connect, ora scricchiola il tentativo di trasformare Google Profiles nella base per lo sviluppo di Buzz.

Gmail ha la fiducia di circa 150 milioni di clienti, Facebook quasi tre volte tanto. Google Buzz ha una buona base di partenza nel primo servizio, ma solo in tempi lunghi arriverà a raggiungere la copertura del secondo. Molti di noi lo vivono come un esperimento per avvicinare ai social network gli utilizzatori abituali della posta elettronica Google, magari facendo leva sull’interazione via mobile che, al momento, non è certo il punto forte di Facebook.

Giudizio sospeso su Google Buzz, dunque, nella speranza di venire smentiti riguardo l’immaturità della soluzione, comunque in ogni caso un passo avanti rispetto alla macchinosità di Google Wave. Se l’esperimento di Google funzionerà, nuovi utenti si avvicineranno alle potenzialità di comunicazione offerte dai social network; se il tutto rimarrà così, sarà solo un macigno in più integrato in un’applicazione un tempo snella e veloce chiamata Gmail.

Il Festival di Sanremo e i segnali del Paese reale

Febbraio 2009: all’ultimo giro di votazioni del Festival di Sanremo un brivido scorre per l’Italia. La triade finale è formata da Sal Da Vinci, da Marco Carta e da Povia: se vince il primo è un brutto segno (il trionfo dei neomelodici?), se vince il secondo è un bruttissimo segno (la musica italiana è in mano ai talent show?), se vince il terzo è un pessimo segno (l’Italia è così omofoba da appoggiare chi odia i gay?).

Alla fine, vince il giovane sardo Marco Carta, sia al televoto (con quasi il 60% dei voti), sia nelle classifiche di vendita dei dischi (con oltre 120.000 copie). Tutti si convincono che ha vinto il male minore, che in fin dei conti ‘sto ragazzotto allievo di Maria De Filippi non è così male, che è la solita canzone d’amore sanremese: viene consacrato un nuovo “Big” della canzone italiana, idolo delle ragazzine.

Febbraio 2010: all’ultimo giro di votazioni del Festival di Sanremo il terrore scorre per l’Italia. La triade finale è formata da Marco Mengoni, da Valerio Scanu e dal trio Pupo-Emanuele Filiberto-Luca Canonici: se vince il primo è un brutto segno (il trionfo di X-Factor?), se vince il secondo è un bruttissimo segno (di nuovo un prodotto creato nel laboratorio di Amici?), se vincono i terzi… No comment.

Alla fine, vince il giovane sardo Valerio Scanu ed è sancita nuovamente la superiorità del programma di Canale5 rispetto a quello di Rai2 (che comunque si consola col primo premio al “giovane” Tony Maiello). Poche decine di minuti prima, Maurizio Costanzo ha lasciato il suo segno indelebile sulla finale del Festival; poche ore dopo, la trasmissione della De Filippi scorrerà sull’ammiraglia Mediaset.

La loro egemonia culturale è sempre più palese. E questo Festival di Sanremo così surreale, con le Tagliatelle di Nonna Pina mischiate con la Banda dei Carabinieri mischiata con Dita Von Teese mischiata con la Fiat di Termini Imerese è un degno specchio del Paese reale, quello da cui gli heavy users di Internet, che stravedono per i (pochi) cantanti “eleganti” saliti sul palco dell’Ariston sono lontani anni luce.

La rivolta degli orchestrali contro il podio di Sanremo 2010

I monarchici populisti vs. gli orchestrali in rivolta, i fan dei talent show vs. gli intellettuali che stravedono per la vincitrice del premio per la critica. Qualcuno ha qualche dubbio su chi vincerà le prossime elezioni? E quelle successive? E quelle di fine legislatura? Se ce l’ha, è perché ha infilato la testa sotto la sabbia e non ha colto quelli che una volta erano “segnali deboli” ed ora sono tronchi di albero.

Nove centesimi

Estate 2005: su .commEurope ci si interrogava sulle campagne di basso profilo che scorrevano su Corriere.it. I fatturati della versione digitale del quotidiano evidentemente non andavano un granché e quindi l’editore raccimolava centesimi alla meno peggio. Una manciata di mesi dopo, il mercato accoglieva un annuncio a tratti sconvolgente e a tratti prevedibile: RCS Mediagroup annunciava con enfasi l’acquisisizione di Dada e la sua voglia di integrare i servizi multimediali dei due gruppi.

Un bel colpo, che si è tradotto in uno stillicidio lungo quasi un lustro. Ogni manciata di mesi, RCS Mediagroup ha annunciato l’acquisizione di qualche briciola del capitale sociale di Dada, sino all’annuncio di gennaio 2010 (!) di aver finalmente superato il 50% del gruppo fiorentino. Complice forse anche questa lunga danza finanziaria, delle possibili sinergie editoriali ed industriali tra i due gruppi, negli ultimi anni si è visto ben poco e quasi tutto in favore di Dada più che del gruppo editoriale.

Mentre Dada ha continuato la sua politica di acquisizioni in ambito digital goods, RCS Mediagroup ha continuato sulla sua strada di indecisioni sul proprio business model, complice la crisi economica generale e quella dell’editoria in particolare. Flessione continua delle vendite in edicola, qualche piccolo segno positivo in ambito display advertising, il lancio di Premium Publisher Network, gli investimenti per offrire i quotidiani del gruppo via mobile browsing e mobile application.

Proprio su quest’ultimo punto, in questi giorni, si stanno alzando gli strali verso l’editore, ritenuto colpevole, con la “complicità” di Tre (e si mormora presto con quella degli altri Operatori mobile), di aver iniziato a far pagare i contenuti del quotidiano indipendentemente dalla modalità di visualizzazione. Per la prima volta, notano i più arrabbiati sui social network, si esce dall’equazione walled garden=fregatura e si passa direttamente a l’Operatore sa cosa/dove navighi e te lo fa pagare di conseguenza.

Chi oggi si indigna per la scelta di RCS e magari si eccita per Apple iPad e per la possibilità di “consultare in mobilità i quotidiani”, forse dimentica che il quotidiano da sempre si consulta in mobilità. E dimentica pure di essere in un Paese in cui appena pochi mesi fa 40.000 persone hanno prenotato un abbonamento da 130 Euro a scatola chiusa al Fatto Quotidiano. Ed in cui si spende abitualmente 10/15 centesimi di Euro per inviare ogni SMS. E che forse 9 centesimi a pagina, molti, li spenderanno pure.

La televisione come modello formativo

http://www.youtube.com/watch?v=rDlg-ajrEn4

Qualche giorno fa Ester Memoli ha segnalato questo video su FriendFeed, dando l’avvio ad un intenso dibattito su una scena che molti temono si ripeta quotidianamente nelle scuole italiane: allievi aggressivi nei confronti dei docenti, con modi un tempo ritenuti incredibili per un simile contesto formativo. Sorprendentemente, c’è un aspetto su cui tutti i partecipanti alla discussione concordano: la colpa viene data in maniera univoca ad alcuni programmi televisivi, in particolare a quelli ideati e condotti da Maria De Filippi, che su discussioni e litigi hanno basato la propria fortuna.

Alcuni citano Uomini e donne, altri Amici. Se la prima trasmissione ha un seguito marginale e fatto da casalinghe annoiate, la seconda riesce a catalizzare l’attenzione del pubblico giovane e in qualche modo rappresenta la migliore approssimazione del “grande sogno” che diventa realtà. Non quello di vincere al SuperEnalotto per poi vivere una vita tranquilla “altrove”, ma quello di acquisire fama e ricchezza attraverso il proprio talento, per poi passare una vita sui palcoscenici. Personaggi come Marco Carta ed Alessandra Amoroso sono i testimonial di questa illusione.

L’arroganza degli studenti della “scuola” di Maria De Filippi è cifra stilistica della trasmissione sin dagli esordi, ma negli anni la voglia di protagonismo dei giovani artisti li ha portati a concentarsi sui litigi in pubblico coi professori come mezzo per evidenziare il proprio ego, la propria forza individuale. Scene come quella reale vista sopra sono tradizione ogni domenica sera su Canale5. L'”arroganza televisiva” è ormai uno stile di vita ed i reality show sono al contempo specchio fedele di questa realtà e modelli formativi per persone di tutte le età, non solo giovani.

Qualche anno fa uno studio calcolò 17 ore al giorno di risse televisive in Italia. Non è difficile immaginare che il dato sia in costante aumento; il vero problema è che i nuovi stili di comunicazione e interazione sono ormai abbondantemente tracimati nella realtà e contesti come la scuola sono culle perfette per raccogliere i germi nocivi di questo antagonismo esasperato, continuo e malcelato. La prossima volta che qualcuno parlerà di buoni “nativi digitali”, a noi sorgerà il dubbio che in realtà le nuove generazioni contengano più che altro cattivi “tamarri televisivi”.