Ritratto di un innovatore sempre indebitato: Nichi Grauso

Se c’è un personaggio che ha interpretato lo sviluppo dei media in Italia, che è stato anticipatore delle tecnologie e interprete delle mode, costui non è Silvio Berlusconi: è la sua versione sarda, quel Nicola Grauso, per gli amici Nichi, che da oltre 30 anni compare periodicamente nelle cronache dei giornali. E non solo dei suoi, che sono oggi tanti e variegati: una quindicina, nelle varie edizioni locali di quello strano fenomeno chiamato E Polis, chiamate con variazioni sul tema del tipo Il Bologna, Il Mestre, Il Bergamo, Il Napoli e così via. Un fenomeno arrivato al decimo posto nei quotidiani italiani, ma che ora rischia grosso: l’ultimo aggiornamento della versione cartacea risale ad una decina di giorni fa, quello on line ormai ha una settimana. Ci sono decine di milioni di debiti in gioco e stipendi bloccati da tempo.

La storia non è del tutto nuova, a dire il vero. Quando a metà degli anni Settanta il ventenne Grauso lanciò Radiolina dal salotto di casa, il mondo dei media liberi in Italia quasi non esisteva: le radio libere ruppero l’equilibrio TV pubblica – quotidiani storici – riviste a base di fotoromanzi. Radiolina fu la Radio Alice del sud Italia, così come Videolina divenne celebre ben prima della coagulazione del polo Fininvest. Il business pubblicitario derivante dalle due emittenti regalò a Grauso la possibilità economica di conquistare L’Unione Sarda, il primo ed allora unico quotidiano sardo. Un dominio quasi totale sull’informazione locale, svanito nel giro di pochi lustri a causa dei debiti contratti da Grauso per il tentativo dell’acquisizione della Cartiera di Arbatax e dell’inizio della faida con i politici locali.

Lo spirito innovativo di Grauso in quegli anni aveva già intuito l’evoluzione del mondo dell’informazione: l’enorme sforzo di lanciare su scala nazionale il provider Video On Line aveva ufficialmente aperto le danze della Rete in Italia. Inutile dire come andò: travolto dai debiti, Grauso fu costretto a cedere il suo gioiellino a Telecom Italia, che su quella base costruì il leader di mercato, tin.it. Grauso si buttò perciò sull’unico ambito multimediale ancora mancante, quello dell’editoria libraria: cercò di investire nell’ambito degli e-book reader, senza troppo successo. L’ultimo tentativo di imporsi su questi nuovi mercati, al cambio di millennio, fu la famosa acquisizione a tappeto di centinaia di migliaia di domini, come al solito malamente fallita, ma ancora oggi imitata da qualche politico poco creativo.

Dopo svariati anni di assenza dal panorama imprenditoriale (ma con un’assidua presenza nelle cronache giudiziarie), il ritorno di Grauso sul palcoscenico dei media nel 2004 con Il Giornale di Sardegna è stato notato più per la marea di contributi pubblici ricevuti che per l’effettivo successo rispetto al concorrente storico, una volta punta di diamante dell’impero che fu. Solo il lancio dei quotidiani della famiglia E Polis, un anno fa, sembrava aver ridato a Grauso l’aurea di imprenditore innovativo, se innovativo si può definire un quotidiano contemporaneamente venduto in edicola, distribuito gratis nei bar e scaricabile gratuitamente via Internet. Speriamo che i poveri giornalisti coinvolti nel nuovo crack vengano davvero riassorbiti da Class o da chi altri voglia salvare, per l’ennesima volta, la creatura di turno di Grauso, Erode dei suoi figli.

Anche i blogger leggono (e molto)

Qualche anno fa, durante uno dei mille incontri che fanno da cornice e sostanza della Fiera del Libro di Torino, un relatore sostenne che i blogger fossero “una cozzaglia di aspiranti gionalisti e mancati scrittori”. Visto l’esiguo numero di bloggari presenti in Italia in quel momento, nessuno volle ribattere: sorgeva il dubbio che in quel momento storico avesse persino ragione. Ora che invece i blog in lingua italiana sono centinaia di migliaia, sarebbe possibile controbattere: accanto alla suddetta cozzaglia c’è anche una grossa parte di autori “normali”, che utilizzano questo mezzo d’espressione, al pari di altri offerti dall’avanzamento tecnologico, con la semplicità un tempo riscontrabile solo nella posta elettronica.

Ciò che accomuna questa maggioranza e la “cozzaglia” è un’evidente affinità con la parola scritta: mantenere vivo un blog implica non solo un discreto numero di ore necessarie per garantire l’aggiornamento costante, ma anche una capacità di scrittura che renda l’aggiornamento stesso un piacere, non una via crucis. Tale capacità, va da sé, era quella che le professoresse di Lettere del Liceo ti invitavano a sviluppare leggendo, leggendo, leggendo. L’approccio era sensato: chi ha mantenuto quella passione nonostante il limitato tempo derivante dai troppi impegni lavorativi (sigh), sicuramente oggi ha una marcia in più anche nello scrivere con passione sul proprio blog sui quattrosaltinpadella o sull’anticoegittodeifaraoni.

Per la proprietà transitiva, se mantenere vivo un blog implica amare scrivere e ciò implica amare leggere, i blogger ameranno alla follia aNobii, il social network di origine giapponese che, grazie alla sponsorship illuminata di Giuseppe Granieri, ha permesso di dimostrare che i bibliofili italiani che vagano in Rete sono tanti e fieri di esserlo. La comunità internazionale cresce di giorno in giorno e quella europea sembra essere in forte ascesa: i filtri geografici applicabili in diverse zone del sito permettono d’altronde di calibrare i risultati delle proprie ricerche anche al fine di confrontarsi con altre culture ed altri interessi, magari distanti dai propri.

Il logo del Gruppo 'Comunicazione' su aNobii

Pur con tutti i problemi tecnici e concettuali ancora presenti, aNobii cresce ad una velocità incredibile: in una sola settimana sono stati aggiunti circa 100.000 libri, anche grazie agli sforzi della comunità di iscritti, che segnala gli eventuali libri non ancora censiti. Cresce allo stesso modo la coesione sociale, attraverso la nascita di Gruppi di interesse, che accomunano appassionati ed esperti di discipline specifiche, movimenti letterari, stili di scrittura. Giusto per non farsi mancare niente, è stato creato un Gruppo chiamato “Comunicazione”, con la finalità di condividere letture interessanti attinenti le discipline e le esperienze che attengono a questo campo. Tutti gli amici ed i lettori di .commEurope sono caldamente invitati a partecipare: l’ingresso è gratuito e non c’è nemmeno la consumazione obbligatoria…

Il fascino delle diciottenni ed il volano del Web

La famosa foto di Allison StokkeQuesta a sinistra è una delle foto che negli ultimi mesi ha avuto maggiore diffusione sulla Rete: ritrae Allison Stokke, studentessa diciottenne e campionessa giovanile di salto con l’asta, da oggi famosa in tutto il mondo grazie ad un articolo del Washington Post, prontamente ripreso da tutti i maggiori quotidiani europei, compreso l’italiano Corriere della Sera e lo spagnolo El Pais. Un tam tam che sta crescendo in queste ore in tutto il mondo attraversando blog ed altri spazi di condivisione multimediale: un video della giovane atleta furoreggia su YouTube ed il suo profilo su MySpace contiene ormai un numero improbabile di commenti, la maggior parte dei quali smaccatamente scritti da ragazzotti in calore, eccitati per le caratteristiche fisiche della tonica ragazzina.

Si tratta, però, dell’ultima ondata di un fenomeno che in Rete va avanti da mesi e che vede nel suo sito non ufficiale la punta di un movimento sicuramente favorevole nei suoi confronti, ma dalle caratteristiche opprimenti: per una teenager, un conto è ricevere le battutine spinte dei propri compagni liceali, dall’altro diventare icona sexy di migliaia di persone in tutto il mondo, nonostante non si sia fatto nulla per raggiungere questo obiettivo. Nessun filmino osé, nessuna foto erotica, un look tutto sommato nemmeno molto provocante: eppure i navigatori, da quelli statunitensi a quelli europei passando persino dai sudafricani, si sprecano nel descrivere cosa desidererebbero fare alla studentessa, appena maggiorenne.

Non è questo il luogo per esprimere un giudizio etico su tali desideri, ovviamente. Ciò che colpisce, ancora una volta, è il flusso mediatico come volano delle ascese (e delle cadute) di personaggi celebri, grazie ad un mix micidiale di Rete e media tradizionali. Ha correttamente notato Chad Goodman nelle scorse ore: la Rete è stracolma di riferimenti a Allison Stokke, ma milioni di persone, navigatori compresi, ne ignoravano del tutto l’esistenza; ora, grazie ad un articolo su un quotidiano prestigioso ed al relativo rimbalzo tra le maggiori testate del Mondo, tutti noi impariamo a conoscere questa ennesima figura che grazie al Web è “nata dal basso” ed è evidentemente destinata a futuri successi di pubblico e critica. Nascita dal basso che, nota Goodman, potrebbe essere più legata ai media mainstream di quanto si pensi: persino la pubblicazione iniziale della famigerata foto sarebbe successiva a quella avvenuta su un quotidiano locale.

Succedeva, lentamente, prima del Web: si creavano miti, si svolgevano riti, ma non c’erano i siti. Ora i tipi (e soprattutto le tipe) da copertina hanno una gestazione più veloce e soprattutto vengono da campi diversi: il pubblico desiderio non è più quello legato a cinema e spettacolo in genere, ma anche a personaggi dello sport, della cronaca, persino della politica. La Rete crea il substrato, omogeneizza le informazioni disponibili e le moltiplica; i media tradizionali prendono gli spunti, li pianificano e li mettono in circolazione. L’effetto volano del Web a quel punto fa il resto, contribuendo ad aumentare la notorietà e l'”appetibilità” del soggetto in questione. Non è difficile immaginare orde di markettari attratti dall’idea di mettere le zampe su questo magnifico flusso di pubblicità gratuita: attenzione, però, alla forza di attrito legata alla velocità del flusso. Le zampe, è facile bruciarsele.

Il Sole 24 Ore alle grandi manovre

Gira ormai da qualche giorno la notizia che Il Sole 24 Ore, tra un progetto di quotazione in Borsa e qualche altra iniziativa editoriale fuori dal core business (vengono in mente i prodotti “turistici” degli ultimi tempi), intenda anche imbastire una faraonica piattaforma di “blog d’autore”, con una previsione iniziale di 100 blog specialistici. C’è chi nota che il numero sia un po’ alto, chi si candida come autore e chi indice concorsi per definire i possibili dettagli dell’operazione: com’era prevedibile, la notizia non poteva passare inosservata per una questione di quantità prevista e di qualità attesa. Qualità, in particolare, che dev’essere veramente alta: il quotidiano non può rovinare la propria immagine per qualche “pensirerino” poco consono.

L’iniziativa, d’altronde, avrebbe sicuramente il vantaggio di avvicinare alle iniziative dell’editore un pubblico più eterogeneo; tuttavia, non è difficile immaginare che i primi lettori arriveranno direttamente dalle pagine del quotidiano e saranno lettori tradizionali: liberi professionisti, professional aziendali ed altri membri del variegato mondo aziendale e finanziario. Dal punto di vista editoriale, l’idea non suona affatto malvagia: i blog di un consulente del lavoro o di un fiscalista appariranno irrimediabilmente noiosi per il pubblico tecnofilo di Nòva, ma potranno attrarre verso le mirabolanti spiagge del Web 2.0 anche gente che, in azienda, naviga decisamente poco.

Sarebbe carino, però, capire il business model dell’iniziativa: se di blog veramente specialistici e di qualità si tratta, perché non prevedere forme di abbonamento ai contenuti? La proposta appare provocatoria rispetto alla filosofia in voga in questi anni, ma potrebbe segnare un punto a favore della sostenibilità del piano: se si tratta di far spendere tempo a preziosi professionisti del diritto o della finanza, è bene che gli stessi vengano retribuiti, magari in funzione delle sottoscrizioni del singolo blog. Non si vorrà, si spera, seguire la logica un po’ ridicolizzante di alcuni circuiti di nanopublishing: concedere agli autori una microparte dei microricavi derivanti dalle microinserzioni pubblicitarie dell’AdSense di turno.

Non si tratta, si badi bene, di rendere quella del blogger una professione: al contrario, si tratta di fare entrare le professioni nel mondo delle opinioni condivise e di qualità. Sarà forse un peccato che in un modello simile le informazioni non possano, per ovvi motivi, essere aggregate su Technorati e dintorni: ma si tratta di un “pedaggio” a favore di iniziative che devono durare nel tempo per costituire riferimenti affidabili. Abbiamo già visto morire iniziative mirabili come NetManager per la solita miopia di imprenditori improvvisatisi editori, desiderosi solo di inserire banner e link pubblicitari ad ogni angolo di pagina: se di contenuti professionali stiamo parlando, dobiammo essere professionali anche nell’usufruirne.

La febbre delle foto

Ad inizio marzo la stampa alternativa pone l’accento su una vicenda da un lato bizzarra, dall’altro decisamente negativa: la versione cartacea de Il Corriere della Sera qualche mese prima ha pubblicato un articolo su Guantanamo allegano un’immagine tratta dalla locandina di un film invece che un’immagine reale dell’infermo americano. Tanto scalpore, niente scuse ufficiali ed un messaggio del presidente dell’Ordine dei Giornalisti al free-lance della serie “tutti possiamo sbagliare”. A dire della redazione, la colpa sembrerebbe da attribuire ad un’erronea ricerca su una banca dati fotografica commerciale.

Primo d’aprile: Luca Zappa, un blogger con la passione della fotografia, scopre che una delle sue foto è stata pubblicata nell’ambito di una delle mille categorie gallerie pubblicate ogni giorno dai principali quotidiani on line, Repubblica.it in questo caso. La sua denuncia non rimane isolata: poche ore dopo, su Flickr, persone di tutto il mondo iniziano a discutere i furti delle proprie immagini da parte dei quotidiani italiani. Il buon Pandemia avvia il dibattito su questa pessima abitudine e piano piano tutti i maggiori blogger italiani hanno iniziato ad inveire contro lo scarso (anzi, nullo) rispetto dei diritti da parte di Repubblica.it, che negli stessi giorni ha avuto il coraggio di esaltare i propri record di traffico.

Il risultato del Pandemonio sembrava essere di segno positivo: Repubblica.it aveva iniziato a pubblicare forme primordiali di riferimento all’autore delle foto, pur continuando ad ignorare le caratteristiche delle licenze pubblicate su Flickr e su altri siti simili, vero e proprio serbatoio di foto a costo zero per i quotidiani. Non solo di quelli on line, però: è proprio di ieri la “denuncia” di Macubu, un blogger genovese, rivolta a La Repubblica cartacea, edizione genovese. Il quotidiano ha infatti pubblicato una sua bella foto, senza citare i riferimenti all’autore che, se non altro per quanto riguarda la stampa cartacea, è espressamente previsto dalla Legge. Nel frattempo, passata la burrasca, anche i credits sono (ri)scomparsi dalle gallerie della versione digitale, ormai sempre più spesso “blindate” in Flash.

Sia detto che la cattiva abitudine, in realtà, non è solo quella del Gruppo L’Espresso: poche ore fa anche Corriere.it ha dovuto pubblicamente scusarsi per aver rubato una foto dal sito di una blogger. Per aggiungere torto su torto, l’immagine è anche stata usata in un pessimo contesto: si trattava infatti di un articolo su una hostess dedita alla prostituzione. Se teniamo questo ritmo, prossimamente ogni articolo, dal giallo di Cogne al dibattito politico internazionale, sarà accompagnato dalla foto (ottenuta senza rispettare la licenza, ovviamente) di un blogger: possibilmente, super-decontestualizzta e magari scelta a casaccio. Tanto è gratis!

Il personaggio del 2006 sei tu, anzi voi, anzi noi, anzi loro

Quando nello scorso fine settimana Time ha annunciato che il personaggio del 2006 non sarebbe stato (come prevedibile) Mahmoud Ahmadinejad, i media di tutto il mondo si sono scatenati nel comunicarlo ai propri spettatori cercando di spiegare cosa fosse incluso tra quegli «You» cui il settimanale ha dedicato l’ambito premio. Si tratta di una tradizione che dura da decenni e sino ad ora il premio non era mai stato assegnato ad un numero così elevato di persone: in fin dei conti, gli utenti di Internet ormai si misurano in miliardi e quelli che rispondono ai requisiti della rivista sono centinaia di milioni.

I requisiti per sentirsi assegnatari del premio consistono nell’aver utilizzato attivamente i tanti servizi che siamo ormai abituati ad includere sotto l’etichetta Web 2.0: hai vinto il premio se hai condiviso un video su YouTube, partecipato attivamente ad una comunità di MySpace o contribuito ad un articolo su Wikipedia. Un po’ meno se hai mantenuto attivo il tuo blog: l’articolo che spiega le motivazioni del premio dedica molto poco spazio a questa attività, eppure come era prevedibile i blogger italiani si sono scatenati nell’auto-elogiarsi, auto-premiarsi, auto-incensarsi.

L’osservazione sulla parziale rilevanza dei blog è semplice: il Time ha premiato chi è uno step avanti, considerando che mantenere un blog è ormai un’attività scontata come discutere in ufficio con i colleghi; chi invece ha prodotto contenuti multimediali, chi ha partecipato a piattaforme di knowledge sharing, chi ha avviato una propria stazione radiotelevisiva, ha portato un valore aggiunto alla comunità. Questo è davvero lo spirito innovativo di chi merita il premio del magazine: per la prima volta nella storia, non ci sono padroni della conoscenza, ma formichine operose che la creano, la migliorano, la fanno circolare vorticosamente.

Nel frattempo, si può continuare amabilmente a discutere del colpo di mano verso i media classici o del pronome più corretto cui attribuire il premio. Ciò che conta, di questa iniziativa editoriale, è che finalmente la Rete ed i suoi cittadini più attivi abbiano ottenuto un riconoscimento positivo, dopo mesi di brutte notizie e persecuzioni. Per il resto, come ha brillantemente sintetizzato Squonk, «La “rilevanza”, o la “capacità di incidere concretamente” non sono attributi della blogosfera, bensì delle singole persone, le quali – a volte – usano per esprimersi uno strumento di produzione e gestione di contenuti».

Il trionfo dell’intermediazione (pubblicitaria e non)

Il management di Yahoo! si è lanciato in un’ampia riorganizzazione interna della società. L’idea di fondo è quella di focalizzare l’attenzione verso gli stakeholders più interessanti: non solo gli utenti finali dei suoi mille servizi, ma anche e soprattutto inserzionisti pubblicitari ed editori, cioè quella parte di clientela B2B che finanzia la crescita del gigante statunitense, tanto per cambiare grazie alle entrate dei servizi pubblicitari. Altro che Flickr ed i servizi a valore aggiunto: passano gli anni ed il fatturato di Yahoo! cresce solo grazie al valore generato dall’ex Overture.

Le divisioni che verranno fuori dalla riorganizzazione si focalizzeranno sui vari aspetti della catena del valore del modello pubblicitario ormai classico: servizi al mercato consumer per attirare traffico, offerte commerciali alle aziende che vogliono investire sul modello a performance e servizi ai partner editoriali che accettano di accompagnare i contenuti con le inserzioni pubblicitarie pubblicate da Yahoo! in maniera non dissimile da quanto offre Google. La piccola grande novità del 2006, però, è che i contenuti (e le inserzioni) in questione ormai travalicano il confine della virtualità.

Sia Yahoo! che Google, infatti, nel corso degli ultimi mesi hanno avviato attività di intermediazione sui media classici: dopo quello destinato ai quotidiani cartacei, Google ha recentemente avviato un programma destinato alla vendita di spazi pubblicitari sulle radio locali statunitensi. Yahoo! si è invece inventata un’iniziativa che riposiziona la società come partner delle aziende editoriali classiche: i contenuti Web-oriented fluiranno verso i giornali cartacei, inserzioni ed informazioni faranno il percorso inverso verso la Rete. Si tratta di una partnership a tutto tondo che proietta l’ombra lunga dei giganti del Web rispetto al modello tradizionale dei media sostenuti dalla pubblicità.

La storia, si direbbe, è decisamente diversa dagli strombazzamenti che accompagnarono l’infruttuosa fusione di AOL e Time Warner: stavolta i leader di mercato della Rete hanno assunto il ruolo di intermediatori per eccellenza di informazioni da una parte e di crescenti flussi pubblicitari dall’altra. Un ruolo complesso che probabilmente inciderà profondamente sul panorama dei media dei prossimi anni: in un mondo dominato dalla pubblicità, chi è il padrone del vapore mette anche uno zampino profondo sulle scelte editoriali. Tanto più se, con l’altra mano, della gestione delle informazioni ha fatto da sempre il suo pane quotidiano.

Dada acquisisce Splinder (ed i suoi utenti?)

Si prevedono giorni di faville in Borsa per Dada: dopo svariate acquisizioni internazionali di service provider per il mercato mobile (yawn…), finalmente l’azienda fiorentina, sempre più parte integrante del mondo RCS, ha messo a punto un colpo importante assumendo il controllo di Tipic, l’azienda (finto-)statunitense che produce un ottimo sistema di messaggistica istantanea, ma soprattutto gestisce da diversi anni le comunità Motime e Splinder. Un affare da 4,5 milioni di Euro che implica una valutazione pari a 50 volte (…) il fatturato 2005 della piccola società: qualcuno dice un po’ troppo, ma il potenziale c’è.

Il problemino principale di questo business “in potenza” è che l’unico vero asset della società sono gli utenti: circa 220.000 blog vengono definiti attivi, ma chiunque in questi anni ha frequentato le terre di Splinder sa che la mortalità dei blog è altissima e tolti alcuni utenti storici (vedi Personalità confusa, ad esempio), la maggior parte di chi è riuscito a mantenere il proprio blog vivo per un periodo abbastanza lungo prima o poi ha fatto il grande salto verso piattaforme magari pubbliche, ma ospitate su un proprio dominio. Per di più, il fatto che uno dei primi gruppi editoriali italiani abbia comprato la principale piattaforma blog nazionale sembra puzzare di infanticidio nella culla di un nuovo modo di fare informazione.

Nell’immediato, comunque, la paura maggiore dei cittadini della Rete è che Dada trasformi anche Splinder in un ricettacolo di banner pro-suonerie, come già avvenuto con quel gioiellino un tempo famoso come Clarence, oppure ne snaturi le modalità di erogazione, come già visto per le molte acquisizioni degli scorsi anni, al solo fine di accaparrarsi gli utenti e poi smobilitare il servizio stesso (gli “archeologi” ricorderanno Freemail.it e Freeweb.org, ad esempio). Per il mondo “reale”, però, l’acquisizione di Tipic dovrebbe destare un’altra preoccupazione: che si sia tornati ai tempi “dorati”, ma amarissimi, a cavallo del cambio di secolo.

Il tono del comunicato stampa o i commenti sulle valutazioni del tipo “20 Euro per ogni blog attivo” non possono che ricordare i discorsi simili che si ascoltavano ai tempi della quotazione di Tiscali: sembra che la storia non abbia insegnato nulla agli investitori, che oggi hanno premiato il titolo. Ora sarà interessante leggere dell’evoluzione di Tipic nel blog promesso dagli attuali gestori o in quello del fondatore Marco Palombi: speriamo diventi la prima acquisizione di una nuova era di sano equilibrio e non l’ultima di una folle corsa all’oro immateriale.

La coda lunga sbarca in tipografia

In questi giorni di sciopero dei giornalisti, una delle notizie che sta ottenendo maggiore eco sui quotidiani in Rete è lo sbarco in Italia di Lulu.com, la nuova iniziativa di quel volpone di Bob Young, che ormai parecchi anni fa ci aveva stupito con l’idea di un’azienda software concorrente alla strabordante Microsoft: si trattava di RedHat ed era la prima realtà che riusciva a proporre sistemi di qualità basati sul lavoro delle comunità open source, poi venduta al migliore offerente.

Stavolta l’idea non è troppo innovativa, ma sembra ben ideata in termini di time to market e soprattutto di promozione internazionale: è stata predisposta una piattaforma di compravendita di contenuti multimediali indipendente dal supporto di distribuzione ed è stata lanciata in diverse zone del Mondo inseguendo di volta in volta i contenuti e gli strumenti più interessanti per ogni Paese. Che si tratti di voler vendere le proprie creazioni lettearie o quelle musicali, che si voglia consentire il download o predisporne la stampa in tipografia, la scelta è ampia e soprattutto la produzione ha prezzi stracciati.

Esistono anche in Europa piattaforme simili, persino italiane come LampiDiStampa, che consentono iniziative auto-editoriali, ma hanno due vincoli forti: i costi fissi che l’autore deve sostenere e la necessità di dover ricorrere a distributori che tradizionalmente si occupano di distribuire libri tradizionali. Nel caso di Lulu, invece, la focalizzazione totale sul modello on line consente agli autori di usufruire di una piattaforma specializzata e del tutto multimediale.

Rimane da capire chi, in Europa, acquisterà in Rete ed a scatola semi-chiusa libri e musica prodotti da semi-sconosciuti come invece avviene con successo nel resto del Mondo: in Italia è da poco rinata Vitaminic dopo la dissoluzione di qualche anno fa dovuta allo scarso giro d’affari ed è difficile immaginare che tornerà ad essere una potenziale concorrente di Lulu. Probabilmente sarà importante richiamare l’attenzione di nicchie solitamente vessate dagli editori tradizionali, come gli autori di manualistica universitaria: in ogni caso, è il trionfo della coda lunga e della possibilità per ognuno di offrire al mondo il frutto della propria settorialissima passione. Sperando che interessi a qualcuno.

Giornalisti in carriera

Si vocifera insistentemente del possibile avvento di Paolo Mieli ad amministratore di RCS Media Group: più che una ipotesi gestionale, probabilmente un modo di iniziare a pensare al futuro del grande gruppo editoriale dopo le dimissioni forzate di Vittorio Colao, dato in partenza verso incarichi di matrice ministeriale. Nulla di personale contro Mieli, che è ovviamente un bravo giornalista, ma lo scenario strategico che ne deriva non è dei più felici.

Lasciare nelle mani di un pur navigato giornalista un Gruppo che rappresenta un importante soggetto economico ed al tempo stesso un incredibile centro di potere (basti guardare l’azionariato) è una sfida alle regole del mercato più che una scommessa su un professionista: per quanto Mieli possa ben conoscere il Corriere ed i suoi meccanismi, si fa qualche fatica a vederlo gestire fino in fondo un gruppo multimediale che ormai va oltre la storica leadership nel campo della carta stampata, estendendosi sino a radio (cfr. Play Radio) e Web (cfr. tutto il mondo Dada).

La tendenza, a dire il vero, è ormai avviata da parecchi anni: il primo caso celebre è stato Ernesto Auci, che da direttore de Il Sole 24 Ore prima diventò presidente ed amministratore delegato di Itedi, concentrando nelle proprie mani tutta la gestione delle attività editoriali della famiglia Agnelli e gestendo con successo il rilancio de La Stampa, poi assunse un più tradizionale profilo di comunicatore aziendale assumendo le responsabilità delle relazioni istituzionali del Gruppo Fiat.

Proprio il sostituto di Auci in Itedi, Antonello Perricone, sembrerebbe la più realistica alternativa al buon Mieli: se persino il dio del giornalismo italico, Montanelli, ha fallito nel suo tentativo imprenditoriale di lanciare La Voce, forse anche il suo discepolo dovrebbe rimanere a gestire i contenuti editoriali piuttosto che quelli del conto economico. Ad ognuno il suo mestiere: che i panni sporchi li lavino i manager, sarà compito dei giornalisti essere la loro anima critica, non i loro sostituti.