Crolla Google, crolla la Rete

L’incidente di percorso occorso a Google qualche giorno fa, consistente nell’irraggiungibilità di un paio d’ore dei suoi servizi, ha spinto molti esperti di tecnologia a rendersi conto di ciò che i loro colleghi che si occupano di business sottolineano da tempo: Google è il centro della Rete ed un suo problema, tecnico o commerciale che sia, rischia di travolgere seriamente tutto il resto degli attori.

Sul ruolo crescente di Google come monopolista della Rete si discute d’altronde da molto tempo: proprio l’affetto che molti di noi nutrono nei confronti della Big G ci fa da un lato annotare con preoccupazione il suo rendersi ogni giorno più arrogante, dall’altro sottolineare che, tra servizi lanciati in proprio e acquisizioni di startup, ha sbagliato pochi colpi e pertanto il ruolo di traino della Rete è meritato.

Cadono i server di Google? Spariscono i blog ospitati da Blogger, ma anche gli spazi pubblicitari che magari sostengono la nostra attività in Rete. I nostri siti privati che usano Google Analytics fanno fatica a caricare, la nostra posta (magari anche professionale) su Gmail è ferma. Si stoppa la Rete, rallenta la nostra vita privata e rischia di fermarsi anche il lavoro. E tutto per il problema di un’azienda.

Un anno fa era successo qualcosa di simile ad Amazon e questo aveva evidenziato la criticità nell’uso di servizi di cloud computing in ambito aziendale. Ora leggiamo delle enormi server farm di Facebook e ci domandiamo quanto possano essere sterminate quelle di Google e quanti problemi la nostra azienda potrebbe rischiare qualora scegliesse di gestire on the cloud le applicazioni in quegli stabilimenti.

Si tratta di un problema di urgente attualità e di difficile soluzione. Noi ci fidiamo ciecamente di Google e degli altri grandi fornitori globali, ma nulla può assicurarci davvero che, per quanto i loro servizi siano il meglio sul mercato e generalmente affidabili, tutta l’economia mondiale possa girare sui loro server. Eppure, ci stiamo arrivando, nemmeno troppo lentamente: che Dio sia clemente con i loro datacenter.

I problemi di WordPress e le rivoluzioni rimandate

I lettori abituali di commEurope avranno notato misteriosi ritardi nella pubblicazione dei post da settembre in poi: il “merito” è degli aggionamenti di WordPress, che non solo presentano ogni volta impatti deliranti sugli archivi (vedi la vendetta delle lettere accentate), ma soprattutto comportano una serie di ritardi per cui alla fine si decide di rischiare e lasciare on line una versione più vecchia e perciò per definizione ricca di bug.

Il punto è che un blog dev’essere solo (per quanto culturalmente stimolante, ci mancherebbe) un passatempo. Siamo tutti consci di star vivendo una rivoluzione nei flussi di comunicazione peer-to-peer o bottom-up, ma dobbiamo anche renderci conto di essere delle mosche alle prese con una carta adesiva. Terribilmente attraente, ma dai rischi mortali per quanto riguarda la vita del blogger che le vola incontro.

Se si è giornalisti professionisti, non solo si è più bravi a scrivere, ma si ha anche un certo rapporto con tempi e modi della scrittura. Se si è blogger amatoriali, il rapporto è più complesso: perché i tempi non sono quelli della propria professione e la cura degli strumenti di supporto non è a carico di altri. Un giornalista deve concentrarsi sulla qualità del proprio intervento, il blogger deve mantenere la tipografia virtuale e poi vestirsi da editore prima ancora che da autore.

Tutto ciò fa sì che i giornalisti professionisti possano stare tranquilli: abbiamo ancora molto bisogno del loro tempo passato a documentarsi, dedicato alla scrittura e poi passato, magari, a difendere le proprie opinioni di fronte ai lettori inferociti. Se poi per farlo usano un blog, tanto meglio per loro e per i giornali che rappresentano: sia onore ad Alessandro Gilioli, ad esempio, che è riuscito a creare uno spazio di qualità per diffondere i propri articoli e confrontarsi coi lettori.

Ne parliamo tra qualche anno, insomma. Quando l’infrastruttura sarà trasparente e non richiederà tempo per manutenzione e aggiornamenti, quando i blog saranno uno strumento professionalmente riconosciuto e non una passione da seguire a notte fonda, quando avremo accesso alle fonti come avviene normalmente ai professionisti. Nel frattempo, un post alla settimana è più che sufficiente per mantenere attivo questo Speakers’ Corner personale.

Google Chrome e il mercato ICT visto col cuore

Sulla strategia di marketing del lancio di Google Chrome è già stato detto tutto in Rete: anche i meno avvezzi alla materia hanno intuito la portata innovativa del lancio detto/non detto con un fumetto divulgativo, mentre i più sensibili ai temi della strategia aziendale hanno intuito l’importanza significativa di questo prodotto per una Google che ormai non è più e non è solo una Web company, ma un attore leader dell’ICT a tutto tondo. Nulla da eccepire, anzi: onore al management di Google per essere riusciti a sviluppare un prodotto di qualità così lontano da occhi indiscreti, salvo riuscire a farlo deflagrare sul mercato con una veemenza mediatica raramente ricordata in passato. Quando anche i telegiornali di Stati come quelli del Sud Europa arrivano a parlare di un software in termini talmente trionfalistici, viene da dire che Google dovrebbe elevare un monumento a Stefano Hesse e ai suoi collaboratori sparsi per l’Europa.

C’è solo un problemino, in tutto ciò. E cioè che in pochi sembrano aver compreso davvero il contenuto degli interventi dei media tradizionali sull’argomento. Inutile dire che non ci si riferisce agli Internet addicted, che giustamente sono corsi in massa a scaricare l’applicazione gratuita, né all’estremo opposto a coloro che non hanno mai acceso un PC in vita propria; si fa riferimento, piuttosto, alla crescente parte della popolazione che gode di un accesso ad Internet, anche solo perché a disposizione in ufficio. Sono coloro che non hanno idea di cosa sia Firefox, che dell’icona “Internet Explorer” sul desktop leggono la parte “Internet” e si accontentano, perché la grande “e” celeste è sinonimo stesso di Rete e Rete è sinonimo di Libero o Virgilio.

Per questa amplissima fascia di utenti, l’annuncio di Google Chrome rimane come una stella cadente in cielo: qualcosa che si intuisce essere importante, ma che non si comprende in pieno… E il cui ricordo, dopo pochi secondi, sparisce dalla mente. Se anche la parte più curiosa di questa ampia popolazione avesse voglia di avventurarsi nel cliccare sul link promozionale nella pagina di Google («Ma cos’è, un “browser”?», rimarrebbe perplessa nel leggere quelle tavole a fumetti così tecniche, seppur ben disegnate; se anche volesse lanciarsi nel download dell’applicazione, rimarrebbe fortemente scoraggiata dai messaggi di allarme del browser prima (si tratta di installare un eseguibile) e del firewall poi (visto che sconsiglierebbe di lasciare aprire le porte al programma di setup prima ed al nuovo browser poi).

Entusiasmiamoci pure per la genialità di Google Chrome così come facevamo per Mozilla Firefox. Ironizziamo sulla sua qualità rispetto all’improbabile Safari, con cui pure condivide pezzi importanti del codice. Ma teniamo presente che sarà sempre un gioco inter nos, di gente che sa di cosa parla e che sa come tenere d’occhio la crescente presenza di Google nella propria vita on line e si esalta nel leggere l’articolone di Wired che sembra proprio uno di quelli dei bei tempi andati. Però smettiamola di fantasticare sull’inevitabile declino di Internet Explorer, sul trionfo a scena aperta di Google e sulla morte di Microsoft nel giro di qualche mese: se si parla di mercato ICT, bisogna essere seri e ragionare con la testa, non col cuore.

Una posizione eretica sui prezzi dell’iPhone in Europa

L’iPhone, in Europa, non è così caro come sembra. Detta così suona come un’affermazione piuttosto forte rispetto alla reazione che i blogger europei hanno avuto davanti ai costi del nuovo terminale 3G della Apple. La condanna è infatti unanime, in Italia come all’estero: un prezzo dei terminali che mediamente si pone sui 500 Euro (considerando un prezzo medio tra la versione a 8 GB e quella a 16 GB) viene ritenuto un freno insopportabile alla diffusione dello strumento.

Le statistiche degli Operatori mobili, a quanto si dice nell’ambiente TLC, dimostrano l’infondatezza del teorema: le vendite sono alle stelle, soprattutto per il modello a 16 GB. Cosa peraltro del tutto prevedibile: il terminale si aspettava in Europa da ormai un anno e i più smart hanno preferito attendere una versione localizzata e tecnologicamente molto più avanzata della precedente, piuttosto che supplicare gli amici in visita negli Stati Uniti di stivare la versione originale nei propri bagagli.

Si può comprendere il disappunto degli Europei nello scoprire che un terminale che dall’altra parte dell’Atlantico viene venduto a 199 Dollari, varcato l’Oceano inizi a costare fino a 4 volte l’originale, ma questa è una situazione ormai vecchia che, purtroppo, con il crollo del Dollaro si è paradossalmente acuita, grazie alla gestione dei prezzi da parte delle aziende di elettronica di consumo che, in questo modo, recuperano in Europa i ricavi perduti altrove vendendo sottocosto.

Non si capisce, al contrario, la reazione in valore assoluto rispetto al prezzo dell’iPhone: si tratta di uno smartphone paragonabile a molti altri sul mercato, che paradossalmente presentano spesso prezzi decisamente superiori. Forse dimentichiamo il prezzo al debutto dei Nokia di fascia alta o della maggior parte dei modelli HTC: bei terminali, che hanno qualche funzione in più e qualcuna in meno dell’iPhone, ma che appena arrivati sul mercato hanno prezzi per il cliente finale decisamente alti.

Si sente spesso dire che l’iPhone vorrebbe rappresentare al tempo stesso un terminale di alto livello, ma anche la connettività in movimento per i neofiti; che dovrebbe essere una piattaforma solida per un uso business, ma anche l’evoluzione multimediale del cellulare come lo abbiamo sempre conosciuto. Si sente dire di tutto, persino che sia usato in Paesi come l’Italia come specchietto per le allodole da parte degli operatori mobili alle prese con un mercato che non tira più come un tempo.

L’unica cosa che non si dice è che l’iPhone 3G non è un handset per tutti, così come un prototipo di un’auto da corsa non è un prodotto per le masse: i suoi emuli, probabilmente, lo saranno. Non siamo più ai tempi del claudicante iPhone prima maniera: l’iPhone 3G riesce davvero a restituire una nuova mobilità, che l’Edge del suo antenato non poteva garantire. Più maneggevole di un UmPC e più affidabile di un palmare simil-Palm, l’iPhone ha un prezzo ragionevole per ciò che è davvero: un PC da tasca.

Microsoft, Yahoo!, Google e il prossimo che verrà

L’articolo di Vittorio Zambardino sul monopolio di Google è sicuramente un bel commento alle posizioni di Mr. TechCrunch, alias Michael Arrington, che nei giorni scorsi aveva espresso forti perplessità sull’accordo pubblicitario da 800 milioni di dollari tra Yahoo! e Google. Tra le righe, tuttavia, Zambardino va oltre il tema originale: estende il suo ragionamento sino a comprendere tutta la “guerra per la conoscenza” che, ormai da qualche decennio, sta coinvolgendo il mondo Occidentale. Una guerra che ha visto battaglie importanti ma non ravvicinate all’inizio e che invece sta oggi procedendo a tappe forzate e sempre più veloci, tra un annuncio ai mercati e l’altro.

Bisogna dire che, all’inizio, la guerra era legata soprattutto alla gestione “hardware” della profondità e dell’ampiezza della conoscenza: produrre macchine potenti (e con tanta memoria) rappresentava un buon biglietto da visita presso le grandi aziende ancor prima che presso i privati. Solo l’ascesa di Microsoft e il suo spostare l’asse verso il software, ad inizio degli anni Novanta, era riuscita a cambiare il livello di attenzione collettivo verso queste tematiche. Se prima eravamo abituati a confrontarci con una pletora di produttori di hardware, con Microsoft abbiamo imparato a convivere con un unico fornitore software: un soggetto capace, in apparenza l’unico, di offrire sistemi informativi capaci di gestire informazioni e dati su macchine diverse, in lingue diverse.

Forse proprio Yahoo!, oggi oggetto del desiderio di Redmond, ha fatto cambiare di nuovo paradigma appena pochi anni dopo: la gestione della conoscenza non più necessariamente legata all’hardware locale, ma nemmeno al software. Un solo programmino gratuito, un browser, necessario per accedere al patrimonio importante della directory numero uno: gestita da decine di persone apparentemente esperte, la classificazione del primissimo World Wide Web operata da Yahoo! era uno strumento invincibile per confrontarsi con un mondo nuovo. Solo il rafforzamento dei concorrenti nel far prevalere la tecnologia sull’uomo ha permesso un nuovo salto in avanti: Google non sarebbe esistita senza gli sforzi iniziali di Altavista o Lycos e i loro studi nel data mining.

Ora, ovviamente, viviamo in piena era-Google. Il sistema è pervasivo non tanto e non solo nel suo essere il motore di ricerca più utilizzato, ma anche e soprattutto nell’essere diventato la piattaforma più utile per declinare la maggior parte delle nostre attività in Rete. Ci piace e ci fa paura, ci supporta e ci fa arrabbiare: non possiamo farne a meno, perché permea il nostro mondo e il nostro modo di scrivere e leggere. Nonostante tutto, però, possiamo avere una certezza: Google non sarà l’eterno monopolista. Ci sarà un nuovo soggetto, nel giro di pochi anni, che ne prenderà il posto, lasciando a Google comunque uno spazio enorme, simile a quello attualmente detenuto da Microsoft. Ciò che cambierà sarà il mercato stesso: c’è qualcosa di diverso un po’ più in là, ma lo sapremo solo più in là nel tempo.

Google Android e il concorso impossibile (per gli italiani)

Con il lancio della piattaforma Android si può dire che Google abbia ancora una volta sparigliato un mercato importante, ma non suo: come era avvenuto con l’intermediazione pubblicitaria (vedi il sistema AdSense & AdWords), con lo sviluppo software (vedi Google Web Toolkit) o con la condivisione di contenuti multimediali (vedi Google Video e YouTube), ha lanciato il guanto di sfida ad un settore diverso da quelli in cui ormai è leader consolidata, sicura di diventarlo presto anche in questo. L’approccio, bisogna dire, stavolta è molto aperto: Android vuole diventare lo standard di settore in termini di sistemi operativi per sistemi mobile e per arrivare a questo fine Google ha fatto la saggia scelta di allearsi con i protagonisti del mercato verticale, piuttosto che sviluppare tutto in casa, sotto il proprio marchio.

Tutti sanno, d’altronde, che il redditizio mondo della comunicazione via cellulare riesce a regalare soldi e gloria ad una messe di soggetti diversi: dai produttori di terminali agli operatori telefonici, dai gestori di servizi VAS ai creatori di software. Google cerca di mettere d’accordo tutti, proponendo di alzare l’asticella collettiva: i terminali che vorranno utilizzare le opportunità aperte da Android, ad esempio, dovranno essere obbligatoriamente dotati di videocamera, Wi-fi e GPS.  I produttori di hardware più smart hanno capito l’antifona e si sono adeguati: esclusi Nokia e SonyEricsson, troppo intenti a cercare di imporre i propri standard, tutti i maggiori player del settore hanno annunciato la propria adesione allo sviluppo della piattaforma.

Non fare parte della congrega, d’altra parte, implicherebbe anche l’essere estromessi dall’enorme fascio di luce (più che positivo) che i media stanno puntando sull’iniziativa. Google ha saputo prima alimentare la crescita delle attese sul tanto citato GPhone, concorrente naturale dell’iPhone di Apple; poi ha svelato di non voler entrare direttamente nell’agone, scegliendo una strada diametralmente opposta a quella di Microsoft, che nel frattempo investe soldi e tempo per sviluppare il mondo proprietario di Windows Mobile. Gli sviluppatori vivono così le possibilità aperte dalla piattaforma in maniera decisamente più passionale: Android si basa su tecnologie come Linux e Java ed avrà uno sviluppo open source.

La saggia idea di lanciare premi per un totale di 10 milioni di dollari, poi, ha definitivamente acceso l’entusiasmo internazionale; ne rimane preoccupantemente fuori l’Italia, terra in cui i concorsi ad ampio budget vengono gestiti in maniera un po’ troppo monopolistica da parte dello Stato. Mentre c’è chi, come Stefano Quintarelli, offre di finanziare aziende innovative da trapiantare in terra estera, la Rete discute ferventemente sulle ricadute della nuova trovata della grande G. Ancora una volta, un buon colpo di immagine per Google, in cambio di una manciata di milioni di dollari: noccioline, per l’azienda che ha cambiato il mondo ed ora ha intenzione di cambiare anche noi e il nostro modo di comunicare. E ci riuscirà.

Unified Communications, il tormentone che turberà le vostre notti

Se è vero che le indicazioni di Gartner sono il verbo supremo di ogni manager ICT sparso per l’Occidente (nel resto del mondo tale preponderanza andrebbe verificata), possiamo stare tranquilli che il tema “Unified Communications” diventerà il tormentone collettivo nelle aziende medio-grandi nei prossimi mesi. Già da qualche anno gli analisti di questa società pubblicano report in cui posizionano in un «Magic Quadrant» i principali competitor nella creazione di soluzioni complete in questo ambito: uno scenario che cambia periodicamente e che negli ultimi mesi ha visto attori tradizionalmente forti nel mondo delle telecomunicazioni (basti citare Cisco o Ericsson) finire nel campo dei «challengers» a favore di nuovi «leaders», capitanati al momento da Microsoft.

Quest’ultima società, in effetti, ha dei piani aggressivi ed una visione integrata utile per conquistare questo promettente mercato: non punta a sostituire le reti telefoniche esistenti con soluzioni VoIP (strategia spesso seguita dai concorrenti), ma cerca di virtualizzare il collegamento tra tecnologie differenti (telefono fisso, mobile, e-mail, segreteria telefonica, IM, videoconferenza, etcetera) apponendovi sopra un ampio strato software che è progressivamente integrato a monte con i sistemi informativi aziendali ed è comodamente omogeneizzato a valle con le interfacce care all’utente finale (Microsoft Office in primis). Le campagne pubblicitarie del gigante di Redmond sulla stampa specializzata sono già partite: non è difficile immaginare grandi investimenti per tutto il 2008.

L’unico concorrente che al momento sembra aver accettato la sfida a livello globale è IBM, che ha scelto una via meno proprietaria di quella Microsoft: da un lato ha infatti siglato un’alleanza a 360° con Cisco (integrando le applicazioni e le tecnologie di quest’ultima nella propria offerta), dall’altro ha lanciato la piattaforma UC² (Unified Communications and Collaboration), basata su standard aperti ed ampliabile a piacere anche da parte di attori terzi grazie ad un sistema di interfacce sia a livello applicativo (vedi Lotus Sametime e dintorni), sia infrastrutturale (alias sistemi e servizi, sia voce che video, di Cisco). Tuttavia, se IBM vola alto, Cisco non rinuncia alla sua origine di fornitore di hardware e perciò pone al centro dello sviluppo dei suoi piani di business la presenza di reti e telefoni proprietari.

Ci aspettano mesi intensi, insomma. I professionisti del settore si stanno spingendo in scenari avvincenti, sebbene verosimili solo nel lungo termine: c’è persino chi, nelle ultime settimane, ha parlato di «morte dell’hardware». Nell’ambito di questa lotta tra giganti alla ricerca dell’eldorado della riduzione di costi a tutti i costi, prima o poi anche gli attori più piccoli dovranno scegliere una strada: molti guardano a Skype e si aspettano una presa di posizione chiara, vista la posizione preminente nell’ambito del mercato VoIP ma del tutto debole in quello aziendale. Persino lo strano annuncio della partnership tra Skype e 3 di oggi assume una luce diversa se letto in un’ottica Unified Communications: che i manager (ICT e non) tengano gli occhi aperti, perché avranno tante possibilità di risparmiare, ma anche tante scelte difficili da fare.

Il mito intramontabile delle PMI miete vittime

Fa una certa impressione vedere il Web pieno dei faccioni dei (presunti) manager di piccole e medie imprese chiamati a testimoniare che non sia «un caso che più del 65% dei clienti SAP sono piccole e medie imprese». Fa impressione non solo per la bruttezza estetica della campagna (ampiamente ricompensata dall’alta qualità dei prodotti SAP), quanto per il fatto che, oltre che sui banner, i faccioni in questione si incontrino anche negli aeroporti o in altri “luoghi” in cui si parla di aziende, business, sviluppo. SAP sta investendo pesantemente per raggiungere un target effettivamente lontano da quella che è la percezione comune dei suoi clienti: non solo le “solite” grandi imprese, dunque, ma anche quelle dai budget più limitati.

Bisogna anche dire che la campagna prevede casi di studio di aziende che SAP ritiene PMI, ma i cui fatturati partono da meno di 20 milioni di Euro ed arrivano ad oltre 500. Il che vuol dire escludere le aziende dell’S&P Mib, ma includere molte aziende quotate sulla Borsa Italiana. L’idea di fondo della campagna SAP è comunque corretta: si punta alle imprese che vogliono crescere, partendo appunto da posizioni di retrovia. Sicuramente è indubbio che soluzioni come quelle della casa tedesca possano dare una mano a sviluppare i business più disparati, soprattutto quelli di matrice industriale; ciò che colpisce, tuttavia, è che non è la prima volta (ma soprattutto non sarà l’ultima) che si vede una grande azienda ricorre al mito intramontabile delle piccole e medie imprese come cliente ideale dei propri prodotti e servizi.

Il problema, d’altronde, è che le grandi aziende che operano in Italia (e ancor meno quelle di origine italiana) sono veramente poche. Quando le grandi aziende hanno smesso di vendersi servizi l’un l’altra, iniziano a rincorrere le PMI come se fosser il serbatoio perfetto: sperano di riciclare i propri metodi e le proprie offerte, consce che ripetere lo stesso mantra (quello derivato dall’esperienza con le sorelle maggiori) a qualche decina di imprese sarà un po’ uno sbattimento, ma si preannuncia decisamente redditizio. Ci provano tutti: banche, società di consulenza, agenzie di pubblicità, assicurazioni, società di leasing e fornitori di tutti i tipi, tutti in fila davanti alle porte delle piccole aziende. Hunter addestrati per attrarre clienti dai fatturati minimi, se non altro per toglierli alla concorrenza; account manager con la schiuma alla bocca che lottano per avere budget ridicoli, pur di poter inserire referenze nel portfolio.

Puntare così ciecamente alle PMI è un errore di marketing da manuale. È come cucinare un infuocato piatto di spaghetti all’arrabbiata e darlo in pasto ad un neonato, dicendo “ma tanto sono solo due fili”; è sbagliare la propria strategia, dare porci alle perle mentre si è convinti di distribuire ostriche, ma soprattutto sbagliare tutto nell’interpretare i desiderata dei propri (potenziali) clienti. I quali, dal canto loro, hanno tutti i problemi (anzi, molti di più) di quelli delle grandi imprese: chiederebbero solo di poterli raccontare a qualcuno, invece di vedersi ogni volta rovesciati addosso tonnellate di slide “buone per tutte le occasioni”. Il mito intramontabile delle PMI continuerà ad uccidere le grandi aziende che su di loro hanno puntato tutto: peccato, perché basterebbe ascoltare la loro voce invece che alzare la propria.

Fring, il software di cui (e col quale) parleremo molto

Negli ultimi anni, il concetto di “navigare col cellulare” si è progressivamente auto-legittimato, conquistando un’attenzione sensibile non solo da parte degli utenti business (pubblico elettivo di tutte le nuove tecnologie e di quelle a supporto della produttività individuale in particolare). Il simbolo di questa successiva trasformazione del nostro modo di essere sempre on line è sicuramente stato Opera Mini, il browser in miniatura di Opera che, pur essendo gratuito, ha da sempre mostrato potenzialità decisamente interessanti rispetto ai programmi pre-installati a bordo dei terminali, anche di quelli più prestigiosi.

Fring a Friend!Una nuova rivoluzione è ora alle porte e in parte già avviata dagli utilizzatori più smart dei cellulari, quelli che non accettano supinamente gli improbabili costi della messaggistica ufficiale (15 cents di Euro ogni 160 caratteri, sigh) e soprattutto delle telefonate internazionali. Lo stesso motivo che aveva decretato il successo di Skype e dei suoi gemelli è infatti alla base del successo crescente di fring, il client VoIP per mobile che sta spopolando in particolare tra i numerosi utilizzatori di Nokia con Symbian a bordo. Chi non ricorda i commenti trionfali di Suzuki Maruti di qualche mese fa?

Le mille possibilità di comunicazione attraverso fringFring non può non piacere: interfaccia semplice, interazione seamless tra operazioni di uso quotidiano (MSN Messenger, Twitter, ICQ e mille altre attività con le quali ci dilettiamo abitualmente via PC) e sistema operativo, con ampio e crescente controllo della connettività, sempre nell’ottica del risparmio: il software cerca automaticamente la connessione meno costosa (tipicamente wi-fi) e gestisce l’auto-roaming con le reti tradizionali, garantendo una buona qualità soprattutto nelle conversazioni tra fringsters.

L’unico dubbio che turba un po’ gli utenti, al momento, non riguarda le caratteristiche tecniche ma il modello di business dello strumento, domanda incubo per chiunque abbia visto le più promettenti dot-com di inizio secolo collassare sotto i debiti. La nota di merito va invece alla presenza di fring in Italia, curata da Hagakure ed in particolare al lavoro di Federica Dardi, che con abnegazione e professionalità sta sostenendo la diffusione del buon software anche nel nostro Paese. Prossimo passo atteso: il sito di fring in più lingue, italiano in primis, per far avvicinare allo strumento anche persone meno sensibili agli aspetti tecnologici ma comunque amanti di telefonia cellulare e dintorni (leggi: il 95% degli italiani).

Safari per Windows: era meglio evitare?

Che i prodotti Apple siano chic, ben disegnati e ambìti non è un’opinione: è un fatto condiviso. Poco da dire sull’hardware: molte innovazioni Apple, si sa, sono diventati standard di mercato. La novità degli ultimi anni, però, è il sempre maggiore impegno in ambito sviluppo software: anche in questo campo i designer hanno fatto per la maggior parte dei casi un buon lavoro ed i programmatori hanno lavorato bene nel rendere ampiamente funzionale quelli che non dovevano essere solo sterili esercizi di ergonomia. Basti pensare ad iTunes: un software discreto, che nel tempo si è affermato non solo come client per la piattaforma di commercio elettronico Apple, ma anche come ottimo player di file multimediali.

Persino i Linuxisti più smart, da quando la Apple ha ricostruito il suo sistema operativo grazie ad un ampio uso dei sistemi open source, hanno iniziato a propagandarne l’uso come alternativa linuxiana (ma decisamente user friendly) al “solito” Microsoft Windows. Inutile ricordare l’ampio uso che dei sistemi in questione si fa in ambito professionale: grafici, pubblicitari ed esperti di desktop publishing sembrano non conoscere altra piattaforma su cui far girare i loro impegnativi (in termini di risorse necessarie) strumenti di lavoro. Superfluo anche ricordare l’attesa spasmodica legata al lancio dell’iPhone di questi giorni, negli Stati Uniti: esiste gente che vuole investire 500 dollari ed impegnarsi in un contratto biennale pur di non farsi mancare il (presunto) gioiellino.

Tutto è bello e con l’effetto aqua, in casa Apple. Tranne un piccolo, apparentemente di secondo piano, software che Steve Jobs, alle prese con le attese dei mercati di nuovi prodotti a ritmo insistente, ha dovuto annunciare al mondo nel suo ultimo intervento pubblico. Si tratta di Safari, che dopo qualche anno di presenza nei sistemi operativi Apple, è stato lanciato come browser alternativo anche per Windows Vista ed i suoi antenati. Tutti, inutile negarlo, siamo corsi a scaricarlo: per quanto in beta, un software giunto alla versione 3.0 dovrebbe essere abbastanza stabile da essere utilizzabile anche nelle situazioni d’uso quotidiane. Ed invece no.

Safari per Windows funziona poco e male. Anzi, ad essere corretti, spesso non funziona affatto: la maggior parte dei tentativi di navigazione, infatti, si conclude con un laconico

«Safari is missing important resources and should be reinstalled»,

tipico messaggio stupidamente non risolutivo, della famiglia di quelli che i Macintosh-friends da sempre rinfacciano ai prodotti di casa Microsoft. C’è da dire che nel mercato dei browser, sin dai tempi della guerra Netscape Communicator 4 – Internet Explorer 4 (quanti ricordi), vince chi innova: non meraviglia perciò che Safari ed Internet Explorer 7 vengano scaricati a più non posso e siano perciò in ascesa rispetto allo stantio Firefox, da cui hanno preso e migliorato molte delle idee che negli scorsi anni ne avevano fatto un browser molto utilizzato soprattutto tra le fasce più raffinate di utenti.

Ciò che non si capisce della vicenda, però, è il perché la Apple si sia voluta far del male immettendo sul mercato un prodotto del tutto immaturo: che la guerra dei browser sia vitale per il futuro della comunicazione multimediale è un dato di fatto, ma è pur vero che proprio per questo non è il caso di fare figuracce. In casa Apple, ad esempio, hanno puntato molto su vantaggi del tipo “maggiore velocità di rendering delle pagine”: ma sono veramente questi i benefit attesi da chi utilizza normalmente il Web? Non era forse meglio puntare solo sullo sviluppo di browser solo per il mobile, settore in cui solo Opera, con la sua edizione Mini, è riuscita a creare uno standard? Per ora aspettiamo la prossima release ufficiale, prevista per l’autunno: a quel punto, però, speriamo che la strategia sullo sviluppo dei browser di casa Apple sia meno financial-markets-driven e più consumer-market-driven.