Disclaimer e-mail e cookies

Luca Conti se l’era presa con i disclaimer in coda ai messaggi di posta elettronica: negli anni il motto di spirito o la citazione classici dei primi messaggi di posta erano stati sostituiti da ingombranti messaggi in legalese su diritti e doveri dei riceventi o sulle intestazioni giuridiche delle aziende dei mittenti.

Nel tempo si sono aggiunti i risultati degli antivirus ma anche immaginette sciocche coi loghi delle aziende, frutto di incredibili catene di finti allegati. Oggi non è difficile ricevere messaggi in cui l’e-mail è usata come una chat (“No”, “Ok”, “Ricevuto” etc.) con 9/10 del “volume” occupato da disclaimer.

Qualcosa di simile poi ha iniziato ad accadere con i siti Web. Proprio nella Gran Bretagna che ora parla di abolire i disclaimer sulle e-mail per prima abbiamo visto gli orripilanti banner sulla cookie policy. Da inizio giugno vale anche da noi: ogni sito dovrebbe averne uno, linkato alla propria privacy policy.

Qual è la reale efficacia di tutto ciò? A parte aver imbruttito notevolmente le esperienze utente di molti siti, nulla è cambiato: i più scaltri hanno inserito messaggi del tipo “basta che scrolli e hai accettato tutti i cookie possibili e immaginabili”, senza alcuna reale protezione dei lettori, abituali o casuali.

Sembra la solita attività per dare il modo agli editori di pararsi il sedere e continuare a fare esattamente ciò che facevano prima, non prima di aver messo in difficoltà migliaia di piccoli blogger o gestori di sitarelli vari la cui attività più estrema era raccogliere dati di base con Google Analytics.

Qualcuno ha lanciato delle petizioni per mettere fine a questo scempio, ma non è difficile immaginare che non si otterranno risultati: l’indirizzo generale è quello di scrivere lunghe dichiarazioni salva-condotti invece di mirare alla sostanza dei problemi, a livello europeo ma anche dei singoli Paesi.

Sugar Daddies e teenager su Tumblr

Una settimana sì e una no girano su giornali e blog i commenti a Sugar Daddies, la piattaforma che “mette in contatto” signori benestanti e studentesse del college alla ricerca di fondi per andare avanti negli studi. Le storie raccontate (valga come esempio l’articolo di Caroline Kitchener su The Atlantic) non sono particolarmente edificanti: al di là del tentativo dei gestori della piattaforma di dare un tocco glamour alla faccenda, si tratta di prostituzione.

L’intento sarebbe nobile: aiutare fanciulle in difficoltà a costruirsi una carriera, magari in un’università prestigiosa, senza costringerle a versare le tasse di iscrizione che, soprattutto negli Stati Uniti, hanno raggiunto cifre folli. Anche l’auto-descrizione dei finanziatori è elegante e molti si descrivono come manager in carriera, poi in realtà i veri ricchi son piuttosto pochi: non si rovinerebbero la reputazione adescando ragazzine su finti siti di dating.

Non è poi così sorprendente che una studentessa universitaria possa prendere in considerazione l’idea; magari la stessa ragazzina pochi anni fa pubblicava sul proprio tumblelog immagini erotiche così, senza particolare impegno. Non è per fare i moralisti: basta scorrere la dashboard di Tumblr avendo sottoscritto profili di ragazzini “normali” per arrossire di fronte a una clamorosa deriva “erotica”, anche se per la maggior parte dei casi “soft”.

Si tratta di qualcosa di più di un trend passeggero; è un vero e proprio cambiamento. Qualche tempo fa da queste parti ci si interrogava se fosse effetto di MTV; ora sembra quasi il contrario, nel senso che è ormai la realtà ad aver superato le rappresentazioni sui media e i media stessi corrono appresso a questi fenomeni cercando di dar loro la patina cool. Ed è così che una settimana sì e una no girano su giornali e blog i commenti a Sugar Daddies.

Addio classe media

Jaron Lanier è uno dei padri della Rete; magari non tra quelli che si sono sporcati le mani per metterla su, ma sicuramente tra quelli che hanno iniziato a studiarla in fasce. I suoi libri degli ultimi due decenni si potrebbero poggiare sul ciclo dell’hype di Gartner: grandi entusiasmi seguiti ora da grande disillusione. Critiche pesanti ai giganti di Internet, preoccupazioni significative riguardo al fatto che le offerte speciali di Amazon e pochi altri stiano iniziando a massacrare anche i centri commerciali dopo che i centri commerciali avevano ucciso i negozietti in centro. Bisogna dire che Lanier è in buona compagnia: Franklin Foer ha analizzato dati e comportamenti del gigante dell’e-commerce come estremizzazione del modello Walmart, ripulito dallo sfrido con la realtà fisica. Una sorta di monopolio perfetto, che tuttavia qualcuno ha iniziato a mettere in discussione proprio negli scorsi giorni: la quotazione stellare di Alibaba ha fatto emergere che c’è spazio per giganti ancora più grossi, o quantomeno che i monopoli hanno vita corta in assenza di asimmetrie informative. A parte Google, che si è assunto il ruolo di gestirle, da solo.

Il vero potere sta lì, nell’essere il controllore dell’informazione, che irrimediabilmente implica essere anche il padrone della pubblicità, che dell’informazione è la sorella mercenaria. Evgeny Morozov ha costruito la sua carriera sulla critica a Google e sull’invito ai suoi utenti ad alzare il capo, a continuare a interpretare la realtà in maniera proattiva piuttosto che fidandosi degli algoritmi, pur potenti. Il che richiede una certa capacità intellettiva: se abbiamo il sospetto che Facebook “ci nasconda qualcosa” sui nostri amici, possiamo scegliere di mettere gli interventi in ordine cronologico, ma questo richiederà ulteriore tempo da parte nostra nel filtrarli; se non ci accontentiamo del primo link a un albergo di Google in una determinata città, possiamo andare a cercare un comparatore specializzato e raffinare la ricerca, adottando la nostra esperienza per confrontare caratteristiche e prezzi. Certo il tempo di molti di noi è limitato, ma qui torniamo al classico problema per cui la risorsa più scarsa nelle nostre vite è proprio la disponibilità di ore e giorni; non a caso i lavori “offline” di assistenza cresceranno sempre di più, su nicchie specializzate.

Si tratta di una vera e propria polarizzazione del mercato del lavoro: da un lato questi lavori basati sul concedere il proprio tempo (e le proprie braccia) a chi può permetterselo, cioè chi sta dall’altra parte del polo e ha una professione di alto livello. Oltre alla retorica contro gli immigrati di cui si scriveva qualche settimana fa, l’altro luogo comune di chi teme per il proprio lavoro vede “le macchine” impersonificare il ruolo del cattivo un po’ in tutto il mondo. Non che sia una novità: “le macchine” in questione un tempo erano i telai, poi i robot nelle fabbriche, ora i device connessi alla Rete. Oggi “le macchine” fanno fuori operai e impiegati di basso livello, ma hanno bisogno di milioni di esseri senzienti per essere progettate, gestite e vendute. Chi si ferma è perduto, ma fermarsi è spesso una scelta volontaria: qualsiasi impiegato che non vuole trasformarsi in venditore, qualsiasi operaio che non vuole trasformarsi in badante, qualsiasi studente che sogna di fare il mestiere dei propri genitori diventerà un problema per la società. Oltre ovviamente a fare la fame, visto il tritacarne politico ed economico in cui siamo immersi.

Cresce la diseguaglianza salariale probabilmente, ma questo fa sì che sia il momento di fare scelte radicali: o si vuole rimanere a valle o si cerca di raggiunge la cima della montagna; difficile rimanere sulla mulattiera e lamentarsi di venire travolti da chi è più agile. Nascono e muoiono nicchie ogni giorno e non tutte legate all’alta tecnologia; ma certo non è più tempo di vantarsi di non possedere uno smartphone o di ignorare volontariamente l’uso della Rete. Servono politiche fortemente orientate a incentivare l’educazione, anche e soprattutto in settori che fino a pochi anni fa non esistevano o erano marginali; non solo per i ragazzini, ma anche e soprattutto per gli adulti, in modo che possano riconvertirsi invece di piangersela tutto il giorno sulla propria obsolescenza professionale e sociale. Non sarà un processo rapido e gli strappi sociali sono sempre dietro l’angolo, ma probabilmente è il momento di rimboccarsi la maniche interpretando “diritti” che stanno sparendo, travolti dal presente che un tempo è stato un futuro disegnato e poi messo in piedi da esseri umani, non certo da “macchine” non senzienti e insensibili.

Quando muore un blogger

Marco Zamperini è stato un amico e un maestro per molti di noi: uno dei primi in Italia a conciliare capacità di scrivere su un blog, voglia di confronto nella vita reale e attività professionale in un contesto consulenziale hi-tech. La sua scomparsa ha fatto venire i lacrimoni: perché era già scampato una volta all’infarto e da allora aveva vissuto ancora più intensamente, ma soprattutto perché la sua famiglia è bella e giovane.

Donato Carrisi e il suo blog Markingegno all’inizio erano venuti fuori in un contesto in cui fiorivano i blog di settore (qualcuno ricorderà la competizione Marketing Blog Playoffs). Quando Donato è andato via aveva la metà degli anni di Marco ma la sua esperienza aveva lasciato segni profondi: in Rete, ma soprattutto tra le persone che l’avevano conosciuto dal vivo, scoprendo un professionista e un uomo simpatico, davvero indimenticabile.

Alberto D’Ottavi è scomparso da poche ore ma ha lasciato voragini nei cuori di chi gli voleva bene, di chi lo stimava professionalmente o anche solo lo leggeva sul suo blog, sui social network o anche su testate prestigiose. Un inctus fulminante a 48 anni è qualcosa che non può non far venire la pelle d’oca: quasi un monito per chi vive di Rete e in Rete, per far sì che il suo esempio resti fulgido e faccia riflettere a lungo.

Ogni volta che un blogger muore è andare a vedere i suoi ultimi post, ma anche i suoi profili social. Spesso si trovano scampoli di realtà risalenti a poche ore prima della scomparsa; difficilmente quelle persone pensavano che quel piccolo pensiero sarebbe stata la loro traccia finale su quell’Internet tanto vissuta. A noi rimane tanto tanto freddo nel cuore, pensando ai loro sorrisi, ai loro bronci e a quanto ci mancheranno.

Piattaforme svenute

Bisogna ammettere che è un po’ triste vedere 2Spaghi, ex astro nascente della Rete italiana, così abbandonata a sé stessa; nella maggior parte dei ristoranti le recensioni si fermano a 3-4 anni fa, giusto qualche stellina è più recente. La redazione continua a vagliare e pubblicare i profili di nuovi ristoranti, ma il tutto pare un esercizio solipsistico di una community che non è mai diventata davvero tale. Dall’altra parte Tripadvisor cresce vertiginosamente anche in Italia, ma attirando critiche aspre dei ristoratori, che si trovano invischiati in vendette trasversali e racket criminali. Quindi si continua a utilizzare 2Spaghi sperando non muoia del tutto.

Uno use case per chi progetta sistemi di EPG: visto che è difficile ricordare se si è già visto un film o un episodio di una serie televisiva, aggiungere un flag “già visto” accanto ai programmi, magari col richiamo di un eventuale commento inserito. Non serve creare nuovi database, visto che molti utenti hanno già raccolto queste informazioni su siti come IMDb o su quella che all’apparenza era la piattaforma più promettente per seguire i programmi televisivi, Miso. Oggi è una landa semi-desolata, probabilmente a causa della volontà di offrire badge e punti (incomprensibilmente inutili) invece di sviluppare una discussione “second screen”.

La piattaforma sospesa per eccellenza, almeno in alcuni stati europei, resta comunque FriendFeed. In questo caso la comunità c’è e continua a resistere, nonostante gli investimenti pari a zero di Facebook, che ha cristallizzato il sito all’estate 2009. Ogni volta che FriendFeed è giù le varie community nazionali (pare che quella italiana e quella turca siano le più attive) si riversano su Facebook a discutere di quanto ci si trovi bene laggiù, di come i meccanismi tecnici e le dinamiche sociali siano talmente oliati da andare avanti da soli, sperando ci sia sempre un sistemista di Facebook che riavvii i server quando si impallano.

Ogni tanto ci arrivano le e-mail di piattaforme un tempo sottoscritte sull’orlo dell’entusiasmo e poi sparite rapidamente dal nostro radar: Diaspora, So.cl, MySpace se la giocano con piattaforme ancora attive come Flickr o Klout, che tirano a campare grazie al nostro smisurato ego. Alla fine spendiamo il nostro tempo social su Facebook, LinkedIn e Twitter, con qualche fuga “di nicchia” su Tumblr, Instagram, Pinterest; ma un occhio ai vari 2Spaghi, Miso, FriendFeed lo diamo volentieri. Perché sono piattaforme svenute, ma contengono pezzi importanti della nostra vita recente, dei nostri consumi e delle nostre passioni.

I geek sono diventati glamour?

Essere geek oggi vuol dire essere alla moda o far parte di una nicchia ai margini?

Fino a qualche anno fa la risposta era abbastanza scontata; libri, serie televisive, film e fumetti per anni hanno da un lato strizzato l’occhio a un pubblico di nicchia che si sentiva accomunato sotto questa etichetta e dall’altro ironizzato su questo stesso pubblico a favore degli “altri”. La prima svolta forse è stata la progressiva diffusione dei gadget Apple, in particolare dell’iPhone. Nei mesi di lancio dello smartphone i vecchi appassionati di Apple si lamentavano di come la mela morsicata avesse lasciato la recinzione di love brand di nicchia per cercare un successo più esteso.

Poi è stato il turno di Big Bang Theory, lo show televisivo che ha cercato di costruire un ponte tra i due mondi, riuscendo al tempo stesso a conquistare con un salto mortale chi si sentiva ancora protetto dall’etichetta e coloro che ci scherzavano su. E che magari stavano cambiando abitudini senza saperlo. Recentemente Andrew Harrison su The Guardian si è chiesto a che punto è questa estensione alla massa di stilemi e passioni dei geek e i risultati della riflessione sono eterogenei. Probabilmente oggi dirsi geek è di moda; persino il mondo del business non è rimasto impermeabile.

Che sia merito della cosiddetta consumerization o di qualche programma televisivo poco cambia; probabilmente essere fan ossessionati di Star Trek è ancora terreno proprio dei veri aficionados, ma un certo uso di strumenti hardware e software è ormai fenomeno di massa. I più scaltri continuano a distinguere tra nerd e geek dissociandosi dai primi e sentendosi cool tra i secondi; al di là delle etichette, è un vero e proprio shift culturale in corso che in qualche modo riguarda la maggior parte degli Europei, non solo di quelli che passano 16 ore al giorno davanti a notebook, tablet, smartphone.

Riecco Yahoo!

Se in Europa la stella di Yahoo! non brilla più da almeno un decennio e se addirittura in Cina l’azienda viola sta dismettendo le attività, negli Stati Uniti la storia è molto diversa. Le recenti stime Comscore pongono Yahoo! in cima alle 50 properties più visitate del Web americano. Il distacco con Google è marginale, ma al totalone di Yahoo! presto dovranno essere aggiunti i numeri di Tumblr, che oggi è già presenza solida nella top 30.

Da notare che i numeri sono relativi solo al Web tradizionale, senza una rilevazione specifica dedicata al canale Mobile. Questo potrebbe cambiare le posizioni della classifica, visti i notevoli investimenti di Google e Facebook in questo ambito nel corso dell’ultimo biennio rispetto alla relativa stasi di Yahoo!, che comunque ha giustificato le tante recenti acquisizioni proprio con l’obiettivo di costruire forti competenze/presenze sul Mobile.

Al di là delle cifre, colpisce pensare a come un’azienda data più volte per spacciata riesca a ottenere ancora un seguito così ampio, che è impossibile pensare derivi solo dai tools gratuiti come Yahoo! Mail e di sicuro non viene dalle startup comprate e massacrate nel corso degli anni. Rimane il classico problema delle grandi aziende Web, visto che anche Yahoo! continua a vivere solo di pubblicità, non di abbonamenti premium a Flickr.

Marissa Mayer si sta costruendo la fama di manager brillante e questo le verrà utile anche per il futuro post-Yahoo!, a patto che a un certo punto smetta di spendere soldi in acquisizioni e cambi di logo e inizi a lavorare sul business model. Nel frattempo, fa comunque piacere rivedere un nome delle vecchia guardia di Internet che abbia ancora qualcosa da dire senza ammosciarsi sotto i domini asfissianti di Google o Facebook.

Privacy a corrente alternata

Quante volte abbiamo visto film polizieschi in cui un poliziotto ricostruisce la vita di un ricercato consultando i suoi tabulati telefonici o in cui fuggiaschi si pentono di aver utilizzato la carta di credito venendo letteralmente seguiti in tempo reale? Sono immagini così frequenti da essere diventate tòpoi di buona parte della narrazione contemporanea, non solo gialla.

Poi è arrivata l’estate 2013 e abbiamo iniziato a strapparci i capelli per il fatto che quelle intercettazioni, quei tracciamenti, avvengono davvero, in particolare negli Stati Unit: proprio la terra in cui quelle storie sono spesso ambientate, proprio il Paese che ora sta inseguendo per il mondo tale Edward Snowden trasformandolo istantaneamente in eroe romantico.

Non dovremmo essere poi così sorpresi per il fatto che basta un motore di ricerca scatenato sui social network per far scoprire ad altri tanto di noi; l’incapacità di gestire correttamente le informazioni personali è infatti talmente diffusa che qualche anno fa persino gli agenti della CIA erano stati rovinati dall’aver preso sotto gamba la potenza del Web.

Piuttosto, ci sarebbe da approfondire l’enorme raccolta di informazioni bancarie che in queste ore sta scaldando i motori in Italia, con pur nobili fini di lotta all’evasione fiscale. Siamo davvero bizzarri: seminiamo tracce in Rete di continuo, ci scandalizziamo per le TelCo cattive che tracciano gli SMS, poi ignoriamo la condivisione di tutti i dati con lo Stato.

Dieci fantasmi della Rete

Piccola lista di piattaforme morte (ufficialmente o meno) che magari vi faranno sospirare e dire “Ah, io c’ero” o “Che fine ingloriosa”…

  1. Geocities

    Gli indirizzi chilometrici degli orripilanti spazi Web ospitati gratuitamente da Geocities derivavano dall’idea che il Web fosse una città in cui passeggiare allegramente di boulevard in boulevard. Venne comprata da Yahoo! e poi massacrata fino alla scomparsa. Memorabile il tributo di XKCD.

  2. Ezboard

    Nel periodo in cui Rete sociale significava forum, ezboard.com rappresentava la piattaforma remota più interessante, pur non brillando per flessibilità. Furono tra i primi a tentare la strada dell’iscrizione a pagamento, fino a una drammatica e semi-totale perdita dei dati. I resti oggi si chiamano Yuku.

  3. Freeweb Aspide

    Nei primi anni di presenza della Rete in Italia, Freeweb era un servizio dell’ISP fiorentino Aspide e rappresentava una risposta più che valida a Geocities o Tripod. Il servizio confluì in Dada quasi in contemporanea al suo omonimo Freemail (nomen omen). Esiste una pagina fan su Facebook.

  4. Jaiku

    Twitter era una nanerottola una manciata di anni fa, non così dissimile da Jaiku. Quest’ultima sembrò potesse diventare l’alternativa (nord)europea al più noto servizio di microblogging. Quando venne comprata da Google, sembrava potesse decollare, invece morì. Rimane una laconica paginetta di fans.

  5. Second Life

    Non lasciamoci illudere dal fatto che la piattaforma 3D più chiacchierata degli anni 2000 sia ancora formalmente aperta. Se nel 2007 tutti avevamo tanti punti interrogativi sulla testa, oggi possiamo considerarla un’esperienza finita. Da notare che al picco arrivò ad avere meno di 100.000 utenti contemporanei.

  6. MSN Spaces

    Degno erede di Geocities in termini di look’n’feel terribili, era la piattaforma che ospitava i blog dei ragazzini di tutto il mondo. Sopravvisse a qualche rebranding/tentativo di rilancio di Microsoft, superando abbondantemente i 100 milioni di spazi. Fu proposto agli utenti di switchare su WordPress.com.

  7. Orkut

    Anche i sassi sanno che Orkut ancora esiste (formalmente), che è un marchio di Google e che è uno dei principali social network in Brasile. Quello che però tutti ci siamo dimenticati è che nel 2004 Orkut esisteva già, molti anni prima dell’affermazione mondiale di Facebook. Un’altra chance persa per Google.

  8. LinkExchange

    Quando i sistemi di Web advertising non erano molto evoluti e i budget del tutto risibili, era frequente ricorrere ai sistemi di scambio banner per dare un po’ di visibilità al proprio sito. Venne comprata da Microsoft all’apice della notorietà, poi inglobata nella defunta meteora Office Live Small Business.

  9. ICQ

    Per anni fu “IL” sistema di instant messaging, semi-monopolista al di fuori degli Stati Uniti, dove competeva col client di America Online, AIM. Proprio AOL comprò la piattaforma dall’israeliana Mirabilis, negli anni in cui lo standard mondiale stava diventando MSN Messenger. Gli account sono ancora attivi.

  10. FriendFeed

    Senza voler alzare flame war, visto che in Italia e in Turchia la comunità è ancora abbastanza attiva, FriendFeed è purtroppo una piattaforma morta. Lo sviluppo si è fermato all’agosto 2009, quando la società venne inglobata da Facebook, che ne adottò le principali tecnologie. Un vero peccato.

La resurrezione delle Gif animate

Tutti i nostri primi sitarelli personali, a metà anni Novanta, contenevano qualche Gif animata. Andavano forti i calamai con le letterine, per linkare gli indirizzi di posta elettronica, o le frecce tutte colorate per andare avanti e indietro tra siti fatti di qualche paginetta statica Html con texture appariscenti come sfondo.

Sempre più raramente, capita ancora di trovare in Rete qualcuno di questi cimeli; certo la scomparsa progressiva Aspide/Freeweb in Italia o di Geocities/Tripod a livello internazionale ha fatto sì che piano piano i capolavori a base di Microsoft Gif Animator e Netscape Composer finissero nella memoria dell’Internet Archive.

E poi è arrivato Tumblr. All’inizio si vedeva qualche Gif animata presa qui e lì dalla Rete, magari ripresa da Reddit o 9Gag; poi sempre più scene tratte da telefilm, spesso sottotitolate, riportate non come video, ma come Gif animata. Ampie comunità di fans di serie come Geek o Dr. Who hanno amplificato il fenomeno.

Ora è il turno delle agenzie pubblicitarie, che stanno iniziando a usarle nella comunicazione di aziende come Burberry, Nissan o Red Bull, non solo sui social network; ma è anche l’ora delle applicazioni Mobile, specie per iOs, che in qualche modo potrebbero potenzialmente amplificare il successo di Instagram e similari.

In fin dei conti è una delle resurrezioni più inattese della storia dell’informatica, o forse le Gif animate non sono mai davvero morte. Sono cresciute nel tempo, da scarabocchi di pochi pixel a 256 colori a veri e propri filmatini visualizzabili su molti device. Hanno accompagnato, stanno accompagnando, l’evoluzione del Web.