Cosa sta combinando la Sony?

Piano piano ci stanno riuscendo: l’arrogante ma obiettivamente solido mondo della Playstation sta improvvisamente franando dopo anni di dominio assoluto nel campo dell’home entertainment. Non siamo certo di fronte ad una valanga, quanto ad un harakiri che cerca di distruggere il mito dalla base: da un lato, sono spariti i giochi super-esclusivi e tecnologicamente avanzati che ne avevano segnato il successo; dall’altro, la nuova console che presenta come unica novità sostanziale il lettore Blu-Ray, non esattamente la tecnologia più ambita dai ragazzi di tutto il mondo.

Una delle prime immagini della PS3Eppure il lancio di PSP era stato abbastanza positivo: numeri lontanissimi dai “soliti” prodotti portatili di Nintendo, leader incontrastati del mercato giovanile, ma tanto successo tra un pubblico più maturo e disposto a spendere (tranne che per gli inguardabili film formato francobollo UMD). L’attesa della PlayStation 3 era altrettanto focosa ed il suo esordio negli Stati Uniti ha visto brutte scene di violenza nei negozi; un mercato di successo come quello dei videogiochi, in ogni caso, lasciava immaginare ampi margini per il colosso giapponese grazie al suo nuovo prodotto di punta.

Il fatturato atteso a Natale è arrivato solo in parte e di fatto quasi del tutto legato, almeno negli Stati Uniti, alla PlayStation 2, ormai vecchissima: 1,4 milioni di esemplari venduti, cioè tre volte il numero di PS3 acquistate dagli statunitensi. In mezzo, una strabordante XBox ed una sorprendente Nintendo Wii, che ha dominato anche nel mercato domestico giaponese. La scusa ufficiale per l’insuccesso commerciale del nuovo modello, nemmeno venduto in Europa, è quella dei bassi stock di magazzino. Ipotesi che può valere per il prodotto Nintendo, sicuramente più venduto rispetto alle aspettative iniziali, ma non di certo per lo storico leader di mercato.

Sorge piuttosto il dubbio che sia l’ufficio marketing di Sony ad essere un po’ in crisi di identità: il posizionamento di alto livello di PS3 ha portato a scelte come l’esclusione di materiale porno dai dischi Blu-Ray, ottima strategia per far fallire il formato come ai tempi del Betamax; il tentativo di avviare un network per i giocatori on line sul modello di XBox Live appare più una necessaria imitazione del modello Microsoft piuttosto che una reale innovazione. A questo punto c’è da sperare che, dopo aver ottenuto brillanti appellativi come «social media idiot» grazie al «worst fake blog ever» dedicato alla campagna natalizia di PSP, i nostri si affidino a partner pubblicitari più affidabili: la guerra della prossima generazione è accesissima ed i concorrenti non regaleranno niente a nessuno, soprattutto a Sony.

Blogger utopici ed affaristi politici

Il “solito” evento parigino Les Blogs, giunto alla sua terza edizione con l’etichetta Le Web 3, è finito da qualche giorno, eppure ha causato tanto scompiglio da essere ancora oggetto di discussione da parte di blogger e giornalisti. Purtroppo, contrariamente agli anni scorsi, l’animazione collettiva non deriva e non è destinata alle nuove piattaforme sociali di cui ci nutriamo ogni giorno, quanto alla svolta decisamente politicizzata che l’evento ha vissuto nel corso di quest’ultima edizione. Aspetto del tutto inaspettato da chi, dopo aver versato qualche centinaio di Euro per l’iscrizione, aspettava l’evento con ansia ed interesse tecnologico o sociale.

Il “fattaccio” che ha dato via alle danze è stata la visita di Nicolas Sarkozy, Ministro dell’Interno francese in carica, ma soprattutto candidato del centrodestra alle elezioni presidenziali del 2007: Loïc le Meur, padre dell’evento e blogger più noto d’Oltralpe, ha attirato l’attenzione su di sé in veste di consulente del candidato più che sull’evento. I contenuti del convegno sono rapidamente passati in secondo piano e l’organizzatore è stato accusato di alto tradimento al mondo della Blogosfera che, si sa, non fa sconti a chi passa dalla parte del torto, calandosi nell’agone politico.

Tutti in Italia ricordano il caso di Ivan Scalfarotto, auto-candidatosi alle scorse primarie dell’Unione e severamente punito dalle urne: il suo programma populistico era stato amato da metà blogosfera italiana ed odiato dall’altra, ora il personaggio viene ridicolizzato da tutti. L’atteggiamento «We’re cool, we’re bloggers, we make things happen», d’altra parte, può piacere al blogger della prima ora, ma chi ha un minimo di coscienza critica sa che nessuno regala nulla ad un interlocutore che invia saette nell’etere: sarà così anche per il nascente movimento Bloggers for a Better World, nato proprio a Le Web 3.

L’entusiasmo fa nascere blog o scrivere articoli entusiastici che descrivono l’obiettivo del movimento nello «stimolare la responsabilità sociale dei blogger, spingendoli a lavorare di più sui grandi temi dell’attualità mondiale»: di concreto, però, in questi giorni, non si è visto nulla tranne l’entusiasta post del buon Lele Dainesi. Molti blogger hanno una coscienza civile ma è difficile la esercitino a comando una volta la settimana: o la testimoniano quotidianamente in ogni post, o impostano il loro strumento di comunicazione in maniera decisamente più soft. I blog sono megafoni, strumenti vuoti che non danno valore di per sé: i contenuti derivano dagli autori che, prima di tutto, devono maturarli sulla loro pelle.

Quaranta anni di pubblicità (forzatamente) censurate

Merita sicuramente una visita, da parte degli appassionati di pubblicità così come dei tanti viaggiatori di passaggio dalla confusionaria Stazione Centrale di Milano, la mostra “Pubblicità con Giudizio – 40 anni di pubblicità giudicate dal Giurì dell’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria“. Tra un’impalcatura ed un martello pneumatico, sperando che prima o poi i lavori di ristrutturazione finiscano, i visitatori possono assistere ad un percorso tra condanne e lasciapassare da parte del Giurì, potendo di volta in volta consultare le posizioni a favore e contro le singole campagne, oltre ad un estratto delle motivazioni della sentenza.

Tra qualche decina di riproduzioni di annunci a stampa ed affissioni ed un loop di filmati (e relativi giudizi) di circa un quarto d’ora, è possibile comprendere qualcosa di più del lavoro di questo importante Organo di (auto)controllo del mondo pubblicitario, che trova corrispettivi nei maggiori stati di Europa. Unica critica che si può muovere all’iniziativa è la presenza di troppi sponsor privati: passi per la comprensibile partnership con attori dei media (Sipra, Donna Moderna etc.), quella con aziende coinvolte nei giudizi del Giurì (o di loro concorrenti, che è peggio) non sembra del tutto opportuna.

Dal punto di vista dei contenuti, la mostra rientra in un lungo dibattito tra uso costruttivo del mezzo pubblicitario e provocazione gratuita, tra beneficio al business aziendale e semplice cattivo gusto. Osservando il materiale esposto, ci si rende conto che in realtà il confronto tra la comunicazione attraverso i diversi mezzi evidenzia utilizzi diversi della provocazione e forse anche gradi diversi di sensibilità da parte dell’Istituto. Se i manifesti attraggono l’attenzione e gli spot incriminati sono più che altro ripetitivi dei cliché più beceri, gli annunci sulla stampa, sin da quelli in bianco e nero, sono decisamente più suscettibili di critiche.

I tentativi di pubblicare sulle riviste annunci aggressivi, furbetti, trasgressivi, sessuofili sono tanti ed a volte incomprensibili: si fa fatica a comprendere come le aziende pensino davvero di poter pubblicare annunci scabrosi o pseudo-comparazioni taroccate, ma soprattutto non si capisce quale dovrebbe essere il ritorno atteso da pubblicitari ed aziende stesse. Non a caso, i minori tentativi di presentare al Giurì spot aggressivi potrebbero dipendere proprio dai maggiori costi di produzione per degli annunci che potrebbero non andare mai in onda.

A pensarci bene, proprio questa potrebbe essere la speranza di alleviare il lavoro del Giurì (che scarta l’80% dei lavori analizzati) e concentrarsi su campagne assolutamente creative, ma business-oriented. Quando le aziende capiranno che a volte non basta “far parlare” per dare un senso a delle campagne, forse smetteranno anche di investire su campagne non-sense, premiando le agenzie brillanti, ma non forzatamente provocatorie. Anche per questo la Mostra è una bella iniziativa, che meriterebbe probabilmente uno spazio espositivo maggiore e più tranquillo. Speriamo che l’arrivo a Roma Termini verrà vissuto in un ambiente più idoneo.

Linux Day, il giorno del Pinguino

Il logo del Linux Day 2006Sì è tenuta oggi Linux Day 2006, la manifestazione che in 104 città italiane ha catalizzato l’attenzione di tecnofili e semplici curiosi del meraviglioso mondo dell’open source in generale e di quello del Pinguino in particolare. Manifestazione sicuramente interessante, come molte di quelle nate dal basso ed organizzate da appassionati: peccato che, almeno nelle grandi città, non siano state viste delle folle esattamente oceaniche. Colpa, forse, dei luoghi di ritrovo: sedi universitarie, associazioni specializzate e così via, luoghi sicuramente frequentati dagli aficionados ma molto meno dalle masse.

Quello che manca al mondo Linux, d’altra parte, sono proprio i grandi numeri: sebbene le grandi aziende (IBM in primis) ormai suggeriscano alle aziende clienti (costose) soluzioni basate su software open source al posto di (costose) soluzioni basate su software proprietario, al di fuori del mondo dei server la diffusione del sistema operativo del Pinguino è del tutto marginale. Da notare che, al contrario, applicazioni ben specifiche realizzate dalle comunità di sviluppatori e destinate al mondo Windows, sono ormai dei piccoli grandi successi: in primis Firefox, ma anche Gimp, CDex e decine di client P2P.

Per aumentare l’interesse verso Linux, non bastano posizioni forti come quella di Beppe Grillo, che puntano molto sul potenziale risparmio dei costi per le grandi organizzazioni, istituzioni pubbliche in primis. Basta scorrere i commenti che il comico ottiene e si trovano affermazioni sorprendenti anche da parte di chi potrebbe diventare alfiere di questo tipo di approccio al mondo del software, ad esempio gli adolescenti. Scrive ad esempio il diciannovenne Carlo Fogli:

«ok linus e’ gratis, e’ affidabile, e’ sicuro, ma chi sene? solo nel momento in cui sara’ supportata UNA sola distro, sulla quale verranno indirizzati tutti gli sforzi per effettuare conversioni di giochi e quant’altro valutero l’ipotesi di lasciare windows, altrimenti ciccia!

E se la penso io ed i miei coetanei cosi, figuriamoci un impiegato che usa windows solo con un applicativo e che non sente l’esigenza di cambiare os!

Cambiate linus! una sola distro! Semplice e funzionale! non tante UNA! e sviluppateci di tutto! ho provato ubuntu lts dapper drake, inutile dire che ad oggi e’ un problema capire come instalare il driver giusto per la mia scheda video! troppo un casino! dai»,

evidenziando quello che è un po’ l’atteggiamento diffuso presso il pubblico finale in tutta Europa (paesi nordici esclusi, probabilmente).

Sicuramente, i tanti eventi previsti per oggi, se organizzati in maniera meno tecnofila (basti guardare il pur ottimo programma di Teramo, del tutto incomprensibile ai novizi), potrebbero combattere questo tipo di pregiudizi. L’interesse è tanto, le brutte esperienze purtroppo pure: speriamo che presto anche nel campo dei sistemi operativi si possa avere alternative di qualità e, come nota Alessandro Ronchi, meno luoghi comuni a proposito di ricette magiche e software gratuiti. I soldi, a volte, non sono il problema principale.

È (sempre) tempo di (buoni) eventi

Passata l’apatia estiva, il mondo degli affari europeo ha ricominciato a macinare tempo e denaro: eventi grandi e piccoli si susseguono per scandire i tempi di questa lentissima ripresa economica. Siamo nella stessa situazione di dieci anni fa, al guado tra una bruttissima congiuntura e una rinnovata speranza di riequilibrio economico – sociale. Fiere, convegni ed incontri sono l’occasione non solo per il consueto business – struscio, ma anche per confrontarsi su quale possa essere il driver che ci porterà fuori dal burrone (tasse permettendo). Chi vuole pensare al futuro guarda alla Rete, chi guarda al presente alla tecnologia: in entrambi i casi, lo Smau sembra lo spazio più adatto per discutere.

Anche dieci anni fa, inutile ricordarlo, il volano dell’economia fu Internet: tuttavia, se lo Smau di dieci anni fa era la vetrina di un rutilante mondo fatto di ISP e operatori telefonici, oggi è tornato ad essere, per la gioia dei professionisti dell’IT, una manifestazione del tutto business oriented. Dopo anni di massima attenzione agli aspetti più soft, l’accento è stato posto soprattutto su (nuovi) hardware e (potenti) software: tutto il resto, in questa mini – edizione (visti i numeri dei partecipanti), è finito in convegni e seminari, più che essere vissuto negli stand.

Eventi come il convegno organizzato da Marco Montemagno hanno così attirato l’interesse di chi, internettaro professionale o amatoriale, negli scorsi anni erano al centro dell’attenzione ed ora sembra far parte di una setta di vaticinatori delle meraviglie del mondo che verrà. Il pubblico è stato simile (ma probabilmente più annoiato) a quello che ha reso un evento “storico” il BzaarCamp di Milano, che al contrario dello Smau è un evento nato dal basso. L’Espresso ha capito che aria tira e si è prodigato in tonnellate di elogi a quest’ultima manifestazione, relegando la copertura dello Smau su un piano del tutto marginale.

Passato qualche giorno e forse insoddisfatti dell’andazzo dello Smau, i “curiosi” delle cose future si sono precipitati al terzo tipo di evento: la presentazione Edelman della ricerca Technorati. In molti ne hanno ridicolizzato i ridicoli risultati ed hanno velocemente orientato la propria attenzione al prossimo BarCamp di Torino: in fin dei conti, sui tre tipi di eventi citati sino ad ora, quest’ultimo appartiene alla categoria più semplice da organizzare ma anche, sostengono molti, di maggiore qualità per capire i trend del futuro. Su [mini]marketing se ne è già parlato la scorsa settimana: se ci sarà un modello di evento che prenderà il sopravvento, non sarà certo quello dello Smau.

Scienze della Comunicazione a Padova, dieci anni dopo

Si festeggia in questi giorni, con un convegno e la presentazione di un’indagine sul destino dei laureati, il decennale del Corso di Laurea in Scienze della Comunicazione presso l’Università di Padova. Un traguardo interessante, per un corso che negli ultimi anni è guadagnato l’etichetta di «buona idea finita male», ma che nella città veneta è cresciuto come un fiore prezioso: rispetto ad altri atenei in cui era stato istituito sull’onda della richiesta degli studenti bramosi, a Padova l’esperimento di riunire docenti iper-specializzati dalle numerose facoltà dell’Ateneo, chiamati ad insegnare ad un risicatissimo numero di allievi (100 all’anno nelle prime edizioni), sembra decisamente riuscito.

La sensazione, al di là dell’esperienza empirica, deriva dalla lettura dei dati della ricerca: il 63% dei laureati tornerebbe a frequentare lo stesso corso, probabilmente grazie al fatto che, a 6 mesi dalla laurea in scienze della comunicazione, il 64% degli ex studenti è occupato ed a 3 anni dal fatidico giorno, lo sono in 96 su 100. Merito del buon livello di occupazione, forse, il fatto che gli studenti patavini affiancavano studio e lavoro nel 92% dei casi: al di là della qualità dei corsi, insomma, anche tanta ambizione individuale.

Sfogliando i curriculum dei laureati, si trova un po’ di tutto: c’è chi sta facendo carriera nel mondo della moda e chi, da videomaker freelance, è diventato un paladino della lotta ai CPT; c’è chi lavora a Gardaland e chi fa carriera universitaria; qualcuno ormai lavora da giornalista all’estero o fa la spola per l’Europa come junior product manager; in tanti ricoprono ruoli “classici” del settore, come il copywriter, il marketing manager o lo sceneggiatore cinematografico. Altri hanno seguito strade diverse, dedicandosi alla selezione delle risorse umane o seguendo da vicino il lavoro dei top manager. Inutile nascondersi che c’è anche chi non ce l’ha fatta ed a diversi anni dalla laurea dichiara di svolgere otto lavori part time, molti non retribuiti.

Al di là dell’oasi patavina, la situazione dei corsi di laurea, nelle molte ramificazioni derivanti dalla riforma universitaria, merita ancora molti sforzi per migliorare l’offerta didattica e gli sbocchi professionali. Se la più svampita partecipante ai reality della stagione studia Comunicazione e gestione dei mercati dell’arte e della cultura, o è un’inguaribile ottimista, o segue un corso troppo facile per portare ad una laurea. Ci si aspetta molto dalla Comferenza organizzata dai presidi dei corsi di laurea italiani: se è vero che il problema sono i numeri, la diminuizione delle iscrizioni e le prima chiusure dei corsi fa ben sperare. Anche se 12 corsi di laurea in Sicilia sono troppi: si attendono (improbabili) smentite.

Que reste-t-il de nos amours…

Terminata la sbornia della prima metà di luglio, cosa resta in Europa dei Mondiali di calcio? Dopo un mese abbondante dalla finale che ha regalato all’Italia un titolo conquistato più per scarsa partecipazione degli avversari che per effettiva superiorità in campo, su che eredità possiamo contare noi italiani? Dubbi al limite della retorica, che però sottendono effetti reali sull’immagine e la “spendibilità” della produzione italiana in giro per il mondo. Preoccupazioni che emergono non a causa della mancata vendita dell’orripilante merchandising ufficiale, quanto per gli effetti del calcio sull’economia reale.

Gli effetti visti sino ad ora non sono certo nell’ordine dei vari punti percentuali di crescita del Pil, anzi: come hanno notato gli analisti più attenti agli sforzi commerciali delle aziende italiane, l’aver umiliato paesi storicamente “clienti” dell’Italia, Francia e Germania in particolare, ha un potenziale effetto boomerang sulle nostre esportazioni, ulteriormente amplificato dalle non brillanti previsioni macroeconomiche sul biennio prossimo venturo. Escludendo Dolce e Gabbana, d’altronde, non ci sono state aziende italiane di calibro internazionale che hanno puntato sul possibile successo della Nazionale.

L’hanno fatto, sul mercato interno, più i fornitori della squadra (quelli di tipo alimentare in primis) che i veri sponsor ufficiali: se Mapei ha esposto qualche bandiera tricolore sulla sua sede milanese, Tim è rimasta chiusa in un silenzio assordante, pur essendo come al solito on air con svariate campagne commerciali. Idea probabilmente buona, visto il clamoroso fiasco della Nazionale alla prima uscita pubblica post-mondiali. Gli unici che ancora insistono nel ricordarci la vittoria ai Mondiali sono i content provider del mondo mobile, che sfruttano l’entusiasmo delle masse con le solite suonerie ad hoc.

Tuttavia, non basta storpiare una pur bella canzone dei White Stripes per far girare l’economia: l’unico aspetto veramente positivo resta la notevole crescita del mercato pubblicitario europeo e di quello italiano in particolare, grazie agli investimenti diretti in comunicazione, come al solito ai limiti dell’ambush marketing. Attività promozionale dagli effetti comunque tutti da verificare, con l’eccezione di poche realtà come Adidas, che hanno ovviamente usufruito di effetti concreti legati alla loro specializzazione sportiva. Per tutte le altre, c’è solo da aspettare: ma sorge il dubbio che, come ogni anno, il mercato verrà mosso più da eventi stagionali come la ripresa delle attività e le festività invernali, piuttosto che dal ricordo remoto di una partita di calcio.

Il 2006, l’anno dell’ambush marketing

L’avevamo visto tutti con i nostri occhi durante le Olimpiadi di Torino: in tutta la città, in tutta Italia, operatori economici grandi e piccoli utilizzavano l’Evento per poter attirare clienti, vendere prodotti, guadagnare vantaggio sulla concorrenza. Per difendersi da queste pratiche di ambush marketing, il Comitato Olimpico aveva fatto nascere strutture ad hoc, che si occupassero di brand protection e coordinassero gli sforzi per far osservare la Legge italiana approvata ad hoc. Sforzi solamente in parte riusciti: ancora in questi giorni, i partecipanti al Torino Pride sfilavano con le spillette taroccate di Neve e Gliz omosex.

Le regole dell’Olimpiade invernale avevano monopolizzato l’attenzione di tutto il mondo pubblicitario torinese: nei luoghi di gara, una stretta clean venue policy; per le strade della Città, esclusivamente affissioni degli sponsor e dei soggetti autorizzati. Tutto sommato, comunque, lo spirito olimpico aveva permesso di gestire in maniera sensata le problematiche delle imboscate markettare: qualcosa non troppo vero per quanto riguarda gli attuali Mondiali di Calcio in Germania. In queste settimane, si arriva a cambiare i nomi degli stadi, salvo poi scoprire che tutta la stampa internazionale (giornalisti Rai compresi) utilizza quelli originali.

Le cifre in gioco, d’altra parte, sono enormi: il Rights Protection Program servirà a garantire il pagamento del miliardo di Euro di costi previsti. I ricavi attesi per la Coppa del Mondo di calcio sono storicamente superiori a quelli delle stesse Olimpiadi: ad esempio, 338 milioni di Dollari garantiti dagli sponsor alle Olimpiadi 1988 o 700 milioni per quelle del 1992 vs. un miliardo per la Coppa del Mondo di calcio del 1986. Venti anni dopo, per fronteggiare i mancati introiti, lo staff di 12 professionisti messo in campo dalla Fifa sembra essere a dir poco necessario: basti dire che in pochi mesi ha rilevato oltre 2.500 infrazioni alla proprietà intellettuale dell’organizzazione calcistica.

Del Mondiale non hanno approfittato solo i piccoli operatori economici (porno shop compresi), ma soprattutto i grandi marchi internazionali: tra gli altri, Nestlé, Ferrero, Diadora, Bavaria, Lufthansa ed ovviamente Nike, che di questa strategia ha fatto il proprio vangelo, in particolare con la sponsorizzazione della nazionale brasiliana. C’è chi in Germania ha sostenuto che la Fifa si sia spinta troppo lontana, chi ritiene che tecniche così spinte di ambush marketing siano un danno forte all’Evento, un’evoluzione verso il parassitismo che rischia di strozzare le future manifestazioni globali. Qualunque sarà l’esito sportivo, in ogni caso, i Mondiali passeranno alla storia, come ha notato il Times, come la Coppa del Mondo della pubblicità.

La sete di contenuti si soddisfa col passato

In tutta Europa in queste settimane si discute molto di contenuti multimediali: da una parte, tutti si preparano all’indigestione dei Mondiali di Calcio, che terrà banco su metà dei media, specialistici e non; dall’altra, si susseguono annunci di nuove iniziative, soprattutto nel campo televisivo. La motivazione è semplice: lo sviluppo tecnologico sta offrendo tecnologie sempre più innovative e gli attori interessati ad utilizzarle crescono in maniera esponenziale.

I contenuti pseudo – televisivi, ad esempio, non sono più trasmissibili via etere (in analogico ed in digitale) o satellite (in analogico ed in digitale), ma anche via cavo (eventualmente anche con una “semplice” linea Adsl al posto della fibra ottica), via Web (in streaming ed in download), via cellulare (anche con l’alta qualità permessa dalle reti di terza generazione). Come al solito, la revisione delle tecnologie tradizionali alla luce di Internet è stata la molla scatenante: l’IP-TV è ormai uno stilema che va oltre le sue declinazioni cross-canale.

Il vero problema è che, in degli imbuti così ampi, bisogna trovare del buon cibo da far digerire ai teleutenti in movimento, a pagamento, col supplemento: produrre contenuti ad hoc per televisioni così di nicchia è un’ottima idea per fidelizzarli, ma rischia di avere dei costi mostruosi. Non meraviglia che le “nuove televisioni” abbiano solitamente un palinsensto di 4 – 6 ore ripetuto ad oltranza per le 24 ore successive o che lo stesso film in prima visione su un canale satellitare venga poi riproposto sui canali fratelli per settimane.

In questo contesto, magazzini di idee come le Teche Rai assumono nuova importanza: non solo ottima base di dati per l’utilizzo di studiosi e studenti, ma anche asset da vendere a i tanti canali assetati di contenuti. Sarebbe utile che questo tipo di iniziative venisse sostenuto alla pari delle Biblioteche Nazionali e che i fondi derivanti dalla cessione dei diritti venissero reinvestiti nel potenziamento del fair use. Non sia mai che lo spettacolo anni Sessanta tanto desiderato passi una sola volta su uno sperduto canale satellitare e finisca di nuovo nel dimenticatoio per decenni…

Viva la Fiera del Libro

È ormai terminata la Fiera del Libro di Torino: anche quest’anno un programma abbastanza intenso ha fatto sì che, in una manciata di giorni, si siano tenuti 800 incontri che, con una crescita decisamente virtuosa rispetto alle ultime edizioni, hanno attratto oltre 300.000 visitatori. Numeri interessanti, che testimoniano da una parte il successo delle formula, dall’altra il desiderio diffuso, non solo in Piemonte, di cultura. A Torino, infatti, sono giunti visitatori di tutta Italia: si tratta ormai di una piacevole tradizione per persone di tutte le età e di tutte le regioni italiane, forse ulteriormente incuriosite dalla bella città conosciuta grazie alle Olimpiadi.

Si sono notati, a voler trovare degli spazi di miglioramento, i primi segni della febbre di crescita: gli espositori sono stati felici del poter vendere il 20 – 30% in più di libri, ma hanno dovuto trascorrere decine di minuti in fila per il bagno, mentre nei loro stand i furti crescevano del 10%. Problemi che sembrerebbero già stati presi in considerazione da parte degli organizzatori in modo da potervi porre rimedio nell’edizione del 2007, che si preannuncia elefantiaca rispetto ai ristretti spazi dei padiglioni di Lingotto Fiera di quest’anno. Già quest’anno, l’aver spostato gli intrattenimenti serali in padiglioni diffusi per la città, ha evitato il soffocamento delle arterie circostanti il Lingotto.

Servirebbe un po’ più di respiro, effettivamente, in termini di spazi a disposizione di incontri, esibizioni ed esposizioni: è vero che Mondadori e Rizzoli possono mantenere i loro grandi stand (noiosi come una superette di periferia), ma sarebbe carino che anche i piccoli editori potessero permettersi spazi un po’ più nobili di quelli condivisi su iniziativa degli enti locali o delle associazioni di categoria. La Fiera riesce infatti a comunicare egregiamente ai suoi visitatori la vitalità dell’editoria italiana: completerebbe l’opera di divulgazione riuscendo a dar voce anche ad iniziative di nicchia.

Quello che tira, infatti, sono i bestseller già noti in libreria: nel solo giorno di venerdì Federico Moccia era ospite di tre incontri diversi, con seguito di adolescenti adoranti, mentre nello stand Feltrinelli le copie del suo ultimo libro erano padrone incontrastate del 10% dello spazio totale (!) dello stand; domenica, gli incontri di Fabio Volto e di altri protagonisti del sottobosco culturale italico erano del tutto sold out. Gli incontri con autori ed editori minori servirebbero a spingere ancora di più lo spirito nobile della Fiera: per attrarre pubblico, però, servirebbero spazi ed idee innovativi. Incrociamo le dita: c’è da scommettere che presto il Salone (oooops, Fiera) ce la farà.